“Dove sono andati a finire i camerieri, in candida giacchetta, con i loro vassoi, carichi di gelati? Per quali altri ricercati angolini è dileguato il solito pettegolare delle signore, le solite piccole, fragili, futili delizie mondane?” È una delle tante domande che il Signor G si pone dopo il 10 giugno del 1940, il giorno nel quale anche Cagliari, con “una superba adunata di fede e di ardore” e con un “fiero e virile grido di popolo” si era levata in piedi per ascoltare alla radio il discorso di Mussolini che dal balcone di palazzo Venezia trascinava il paese nel baratro. Una voce quasi fuori dal coro che dalle colonne de L’Unione Sarda racconta la desolazione dei luoghi cittadini nelle notti di oscuramento e coprifuoco e di come fossero profondamente cambiate le abitudini della popolazione spesso restia ad adattarsi allo stato di guerra.
Era il preludio alla devastazione più violenta e sanguinosa che Cagliari avrebbe mai conosciuto, ma questo ancora nessuno lo sapeva.

L’intervento dell’Italia fascista nel conflitto era ormai certo. Nella tarda primavera del 1940 i giornali non facevano altro che osannare le vittorie dell’inarrestabile marcia trionfale dell’alleato germanico, elencare i torti storici della Francia nei confronti del regno italico e condannare la Perfida Albione di Winston Churchill. Malta, Corsica, Nizza, Savoia, Tunisia, Mar Mediterraneo erano le parole magiche della propaganda di regime per giustificare l’entrata in guerra.
In quelle stesse giornate, nella pagina de ‘L’Unione Sarda’ dedicata alla cronaca cittadina, i cagliaritani cominciavano a leggere con sempre più frequenza parole come oscuramento, allarme aereo, razionamento. La mobilitazione generale era in atto.
La mattina del 10 giugno si era sparsa in città la notizia della dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna. Alle 18 Mussolini avrebbe annunciato dal balcone di palazzo Venezia l’arrivo de “l’ora delle decisioni irrevocabili”. La folla cagliaritana accalcata nella piazza Costituzione ascoltò il discorso in diretta radiofonica. “Una grandiosa, memorabile adunata di camicie nere e di popolo – scrisse il giorno seguente L’Unione’ – ha ascoltato il fatidico annunzio, accogliendolo con un tripudio di virile e fierissima esultanza e con un rombo assordante che ha riempito la piazza strabocchevole di moltitudine”.
Pochi capirono la drammatica portata di quell’evento, quasi che la guerra riguardasse soltanto coloro che avevano ricevuto la cartolina precetto. Inoltre era opinione diffusa che il conflitto sarebbe durato poco e che in breve tempo gli alleati si sarebbero arresi, soverchiati dalla schiacciante forza delle truppe hitleriane ormai alle porte di Parigi.
Gli effetti della dichiarazione di guerra furono immediati anche per Cagliari. Oltre all’oscuramento, la limitazione del traffico notturno, il coprifuoco dopo le 23, la chiusura delle sale ballo, la popolazione cominciò a familiarizzare con gli allarmi antiaereo, le maschere antigas e i rifugi. Da subito venne applicato anche il razionamento di pane, carbone, tabacchi, carta e sapone; la carne poteva essere acquistata soltanto dal sabato al lunedì e il vino doveva essere consegnato per ricavarne distillati da mandare ai soldati. Vennero proibiti gli assembramenti in prossimità del porto e nelle vicinanze di altri obbiettivi sensibili, l’ascolto di radio straniere nemiche o neutrali e il trattenersi nelle vie e nei balconi durante le operazioni della contraerea.

Tuttavia la città, più attenta alla beatificazione di Fra Ignazio da Laconi o al rimodernamento del Caffè Torino, stentava a recepire regole e restrizioni e sulla stampa venivano stigmatizzati coloro che non rispettandole si rendevano protagonisti di comportamenti irresponsabili e si raccomandava di assumere un tono di vita più austero.
Testimone di quella prima estata di guerra fu un misterioso corrispondente de L’Unione Sarda che firmava i suo articoli semplicemente G. Grazie ai racconti del Signor G, scritti con uno stile meno distaccato, per certi versi malinconico, al punto che ci si stupisce di come siano scampati alla censura, abbiamo una narrazione particolareggiata su come la vitta cittadina e le abitudini delle persone fossero cambiate in pochissimo tempo.
“Via Roma del tempo di guerra – scrive – ha cambiato vita e abitudini. Svanito l’ultimo chiarore del giorno, calate le saracinesche dei negozi, senti rinchiudersi, di casa in casa, porte e finestre, vedi la gente fluire per le vie attorno, diradare pian piano, sparire come inghiottita dall’oscurità”. […] Questa è Via Roma d’oggi, senza l’artifizio delle reclami e senza le orchestrine, Via Roma senza passeggio e senza vita notturna. La Via Roma di adesso, misteriosa e fluida sotto le luci azzurre, la più scapigliata strada cittadina che messo giudizio, e torna a casa presto e va a letto presto”.
Nella città avvolta dalle tenebre anche il suo più grande monumento, affogava nel mutismo: “Nelle serene notti di questa estate cagliaritana il salotto del Bastione tace nel silenzio e nel buio. Anch’esso ha indossato la sua veste di guerra. anch’esso mentre un ronzio di motori indugia nell’aria calda ed immobile, sembra in ascolto delle sirene d’allarme. Solo, nella vastità della terrazza bianca, strisciando rasente i vuoti sedili di marmo, un vigile con la maschera antigas a tracolla, ombra nell’ombra”.
Al Signor G, attento osservatore, non sfugge neppure la metamorfosi dei giardini pubblici, dove solitamente si recavano le coppie di innamorati e risuonavano “baci e sospiri”: “Il giardino pubblico, nelle ore notturne, appartiene esclusivamente alle coppie. Guai chi tenta di turbare questo regno di sogno e di poesia. Soltanto più tardi, molto più tardi, quando tutto il cielo è pieno di stelle, giungono al giardino quelli che hanno una matta paura degli allarmi e non vogliono, in modo assoluto, dormire in casa. […] Le coppie sussultano all’improvviso arrivo; e questo è il segnale della fine. Zitte, sfatte dal troppo amore, le coppiette si allontanano in punta di piedi.. Dalla grotta giunge – nel silenzio profondo – il russare della gente che ha paura. Suonerà l’allarme?”

Le narrazioni del Signor G proseguono in quelle notti d’estate cosi diverse, dove sembrano ricordi lontani i torroni, le gassose ghiacciate, i balli, i canti e i fuochi d’artificio per la festa di San Lorenzo. Il santo è rimasto solo nella sua chiesa di Buoncammino “anche lui forse, come i suoi fedeli, con l’orecchio proteso nel timore di qualche allarme improvviso. Triste pure il ferragosto: “il mare quest’anno lo abbiamo visto col senso che suscitano le cose diventate sacre; gli abbiamo domandato lo iodio risanatore e non più un’offerta ricreativa. Contentiamoci: la vita per ciò non cessa di essere bella”.
Col proseguire della guerra Cagliari cominciò lentamente a svuotarsi, chi poteva sfollava nei paesi del centro dell’isola; le incursioni aumentavano e oltre gli aeroporti di Elmas e Monserrato le bombe cominciarono a colpire la città. La paura aumentava giorno dopo giorno. Era il preludio dell’apocalisse che sarebbe sopraggiunta nel 1943 distruggendo letteralmente il capoluogo isolano, al cospetto della quale la prima triste estate di guerra sarebbe rimasta quasi un dolce ricordo. Il Bastione, la via Roma e gli altri luoghi raccontati dal Signor G avrebbero conosciuto la più cruenta distruzione. La “primavera di bellezza” cantata dagli inni fascisti di vent’anni prima era finita, restavano le macerie di una città in ginocchio dove ben presto, come scrisse Peppino Fiori, il cigolio delle carriole trainate dagli alpini per lo sgombero delle macerie si sarebbe sostituito con l’affannoso respiro della città risorta“.