Stamane, nella piazza Biraghi di Bovisio Masciago, è stata posta la “pietra d’inciampo” in ricordo di Antonio Moi, che in questo comune, con l’arresto avvenuto nel novembre 1944, cominciò il calvario che lo avrebbe portato ai campi di concentramento nazisti. L’iniziativa è stata organizzata in occasione della Giornata della Memoria, che si celebra ogni 27 gennaio per ricordare le vittime dell’Olocausto, dal Comitato di Monza e Brianza con il patrocinio del Comune, della sezione dell’A.N.P.I e da altri enti e associazioni. Imprenditore, nato ad Aritzo nel 1902 ed emigrato giovanissimo in terra lombarda, Antonio Moi aveva aderito alla cellula del Comitato di Liberazione Nazionale organizzata nel paese da Ferruccio Parri. Una scelta consapevole e coraggiosa che avrebbe pagato con la vita.
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Antonio Moi nacque la mattina del 25 febbraio, nella casa posta al civico 5 di via del Poeta, – la strada aritzese intitolata a Bachisio Sulis, cantore assassinato nel 1838 – secondogenito di Giovanni e Maria Chitti. Il padre lavorava come carbonaio e fu la sua professione a portarlo nei primi anni dieci nella vicina Meana, dove la numerosa famiglia continuò a crescere.
Forse ad Antonio non piaceva quel lavoro. Così, animato da un vivace spirito avventuriero e una buona dose di spericolatezza e coraggio, non ancora sedicenne, scappò di casa, raggiunse il fronte e in qualche modo riuscì ad arruolarsi volontario per combattere nel primo conflitto mondiale. In trincea strinse amicizia con un commilitone milanese che, una volta terminate le ostilità, lo accolse in casa sua, permettendogli di studiare alla Scuola Umanitaria e di apprendere la professione di ebanista.
Il giovane barbaricino si mostrò ben presto abile e intraprendente, caratteristiche che lo portarono nella seconda metà degli anni venti a mettersi in proprio e ad avviare un’attività artigianale tutta sua. Nel frattempo aveva conosciuto Egle Chiari, una giovane originaria della provincia mantovana, con la quale si sposò ed ebbe i figli Marco e Mirella.
Tornò in Sardegna soltanto dopo le nozze e per la morte della madre Maria nel 1932, portando con se al ritorno a Milano il fratello più piccolo Giovanni, appena tredicenne, e in seguito anche Luigi e Peppino ai quali riuscì a garantire istruzione e lavoro.
L’industrioso Antonio e i fratelli furono abili nell’innestarsi all’interno del circuito produttivo milanese e pian piano l’attività cominciò a dare i suoi frutti. La collaborazione con l’architetto Giuseppe De Finetti, uno dei protagonisti del movimento artistico milanese “Novecento” nato nel 1922, aveva aperto nuovi orizzonti portando Moi ad arredare gli uffici della finanza cittadina, le case e della “Milano bene”, e ad assumere qualche anno dopo la direzione della Zari di Bovisio. Intanto anche Peppino era riuscito con entusiasmo e idee, a inserirsi nell’attività industriale della città meneghina e a partire dal dopoguerra, assieme al nipote Giovanni Casula, figlio della sorella Vincenza, avrebbero creato importanti aziende leader nei settori della plastica e del giocattolo.
Le cose cominciarono a cambiare dopo il 10 giugno 1940. L’ingresso dell’Italia nella guerra aveva portato la Zari a dover convertire la produzione per fabbricare cassoni per munizioni e barconi per ponti. La famiglia si disgregò. Luigi venne richiamato sotto le armi in Sardegna, Giovanni inviato al fronte in Albania e i figli, in seguito ai pesanti bombardamenti alleati su Milano, erano stati fatti sfollare nella provincia padana.
L’armistizio del 1943 e la conseguente occupazione nazista resero la situazione ancora più difficile. Le autorità fasciste cominciarono a richiedere manodopera da inviare nelle fabbriche tedesche. Antonio si oppose, giustificando il rifiuto con il pretesto che la fabbrica provvedeva alle forniture per l’esercito repubblichino e che gli operai erano necessari. Il fatto probabilmente non passò inosservato. Peppino invece cedette ed egli stesso si trasferì in Germania per lavorare alla Mercedes di Stoccarda. Intanto il fratello minore Giovanni era stato fatto prigioniero dai nazisti in Albania e deportato nella città di Saalfeld in Turingia per lavorare forzatamente nella Thüringische Zellwolle AG, fabbrica fondata dai nazisti nel 1935 – come parte del cosiddetto programma di autosufficienza che aveva ottenuto ben presto la dubbia fama di azienda modello del nazionalsocialismo – convertita nel periodo bellico alla produzione di acido solforico e disolfuro di carbonio.
Nel frattempo a Bovisio, nella clandestinità di un mezzanino di villa Compostella, l’azionista Ferruccio Parri, col nome di battaglia Maurizio, costituiva la 23esima Brigata Partigiana Mazzini, adoperandosi in prima persona nell’organizzazione del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, e assumendo nel 1944, assieme a Longo e Cadorna, la carica di vicecomandante del Comando generale dei volontari per la Libertà.
Dietro questo forte impulso anche Antonio Moi aderì al C.L.N. Come sostenne: “Non son tempi questi per un galantuomo di stare alla finestra a guardare”. La figlia Mirella, in una lettera inviata a Sergio Cucci dell’A.N.P.I di Bovisio ha raccontato : “Il compito dell’organizzazione era quello di difendere le fabbriche e la popolazione, dalle distruzioni che lasciavano i tedeschi nella loro ritirata. Molti membri furono scoperti ed arrestati il 2 Novembre, dopo qualche giorno, nonostante gli fosse stato riferito di non essere nell’elenco dei sospettati, fu arrestato anche lui e come tutti deportato nei lager.”
Antonio Moi fu catturato durante il rastrellamento del 6 novembre nella sua casa di via Marangoni e portato a Milano. L’11 seguente, con un treno in partenza dal tristemente famoso “Binario 21″ della Stazione Centrale, venne trasferito al Polizei- und Durchgangslager di Bolzano. Ricorda ancora Mirella Moi: “Mamma tramite le conoscenze di papà, era riuscita, recandosi a Bolzano per ben due volte a trovare la strada per farlo scappare, ma per ordine venuto da Bovisio, contrariamente a quanto di solito avveniva, in quindici giorni era già stato deportato”. Il 20 raggiunse il Campo di concentramento di Mauthausen e attraversò quella che Aldo Carpi de’ Resmin definì “la porta dell’inferno”, cessando di essere un uomo e diventando il prigioniero numero 124114.
Le fiamme che escono dai camini, riverberano intorno per chilometri durante la notte e il vento porta lontano il lezzo acre di carne bruciata. Quanto si può resistere? Due mesi, tre mesi? Calcoli inutili. A Mauthausen non esiste il giorno dopo, il solo futuro è l’oggi. Arrivare a sera è uno sforzo tremendo e insieme una fortuna (Vincenzo Pappalettera – Tu passerai per il camino)
Nel successivo inverno venne trasferito ad Auschwitz, dove però rimase per poche settimane. L’avanzata dell‘Armata Rossa costrinse i nazisti ad abbandonare il campo e Antonio venne coinvolto nell’evacuazione e nella Todesmärsche, la lunga marcia della morte, che lo riportò ancora una volta a Mauthausen. Qui, denutrito, stremato dalla fatiche e distrutto dalle angherie subite, morì il 24 marzo 1945, poche settimane prima che l’11ª Divisione Corazzata U.S.A liberasse il campo.
Oggi a Bovisio la sua figura è stata ricordata con la posa della pietra d’inciampo. Sarebbe bello che anche le comunità di Aritzo e Meana intraprendessero simili iniziative per ricordare e far conoscere la storia di questo sfortunato concittadino.
Foto di copertina Francisco Boix – Il fotografo spagnolo di Mauthausen.
Grazie Maurizio Pretta per questo bell ‘articolo che riporta in maniera chiara il compendio della breve vita di mio zio Antonio Moi .,di cui avevo sentito parlare da bambina ,senza cogliere l’importanza di quel triste evento .E’ bello sapere che verrà ricordato il suo coraggio e il suo sacrificio attraverso la pietra d inciampo posta nella casa di Bovisio dove si era recato a vivere per proteggere la sua famiglia .Spero che questo esempio venga seguito anche ad Aritzo dove nacque e a meana Sardo dove si trasferì da bambino ,perché Antonio martire della libertà, merita di essere ricordato per sempre