C’è una scia di sangue lunga circa un secolo che caratterizza la storia amministrativa della Sardegna dell’Ottocento. Un secolo dove la figura del sindaco era molto diversa da quella odierna. Nominato dall’intendente o eletto da pochissimi “probi” uomini in seguito alla riforma dello Statuto albertino, godeva di ampie prerogative e poteri. Solitamente ricopriva tale carica chi apparteneva alla piccola borghesia rurale legata al possesso della terra o alla categoria di professionisti come medici, notai, insegnanti e avvocati che ne erano sua diretta espressione. Per questo le radici delle azioni violente che colpirono molti sindaci vanno ricercate più nella posizione sociale che in altre, seppur presenti, condizioni di carattere politico o amministrativo, che invece hanno contraddistinto la storia sarda a partire dal secondo dopoguerra. La differenza sostanziale sta nel fatto che nell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, la probabilità che un sindaco in carica non morisse nel proprio letto, per un motivo o per un altro, era decisamente superiore.
Anche oggi amministrare i piccoli comuni dell’entroterra sardo non rappresenta il più agevole dei compiti. Ma è il classico “sporco lavoro” che qualcuno deve pur fare, perché l’alternativa è quella di un commissario di nomina prefettizia che si fa carico di sbrigare il lavoro ordinario, limitando ulteriormente le già ridotte possibilità di sviluppo di centri che da svariati decenni devono fare i conti con le drammatiche conseguenze derivate da spopolamento, isolamento, disoccupazione e dal taglio di servizi essenziali in materia di infrastrutture, sanità e scuole. Il sindaco rappresenta ancora l’estrema appendice delle istituzioni statali che tuttavia sono sempre troppo distanti dal territorio e sorde alle problematiche che lo caratterizzano. Di conseguenza è il primo a raccogliere le lamentele e ad ascoltare il disagio dei cittadini, esponendosi talvolta, per scelte che inevitabilmente scontentano sempre qualcuno o per concreta impossibilità a porre rimedio ai tanti problemi che quotidianamente emergono. Succede allora che quelle che nascono come pressioni, critiche e contestazioni esasperate, talvolta si trasformino in esplicite intimidazioni o ancora peggio, in veri e propri attentati alla persona del sindaco e alla sicurezza della sua famiglia. Le cronache isolane degli ultimi settant’anni parlano chiaro.
Tuttavia, nei quasi cent’anni che intercorrono fra il 1816 e il 1912 la situazione era decisamente più complicata. La figura del sindaco nella Sardegna preunitaria aveva la duplice funzione di capo dell’amministrazione comunale e di agente di governo. Nell’Italia liberale si aggiunse una terza funzione che non aveva carattere istituzionale bensì politico, quella di “grande elettore“, ovvero di colui che dalla sua posizione di comando e tramite il suo operato poteva risultare decisivo sull’elezione di un deputato. Appartenendo a famiglie di grandi possidenti, in un’epoca dove la proprietà e i capitali erano nelle mani di pochi, spesso un solo uomo o una sola famiglia potevano disporre di centinaia di voti e del potere di disciplinarli e veicolari verso il candidato a loro più gradito.
Il sindaco – grande elettore, attorno al quale si concentravano le speranze dei deputati, si appoggiava sempre su una rete parentale, una sorta di clan, un certo numero di famiglie maggiorenti strette oltre che da vincoli di sangue, anche da quelli di interesse o più semplicemente di buon vicinato. Poteva succedere anche che queste famiglie o clan antagonisti fra loro per questioni di politica e interesse locali si ritrovassero uniti nell’accordare il loro voto al candidato di turno. Faceva parte di un gioco di equilibrio nell’esercizio del potere e nella tutela degli interessi che permetteva al grande elettore di attuare e controllare una forma di mobilitazione individualistica (e non di massa) degli aventi diritto, in un sistema dove anche solo un voto poteva risultare decisivo. A tal proposito non bisogna dimenticare che prima della riforma della legge elettorale del 1913, la percentuale media degli ammessi al voto era molto bassa, appena il 9% nel 1891.
In questa situazione, dove le famiglie del notabilato locale avevano tutto il loro interesse ad insediare un loro componente al timone della nave municipale, che andava a sommarsi a quello economico e politico, di fatto concentravano nella persona del sindaco una serie di poteri da far valere all’interno e all’esterno della comunità. D’altra parte, colui che veniva chiamato a reggere l’amministrazione comunale, la sua famiglia e il segretario, diventavano anche gli unici responsabili del loro operato e di conseguenza il sindaco era il bersaglio da colpire da parte di chi aveva interesse a far crollare l’intero sistema. Anche allora si usava la minaccia, la diffamazione, il danneggiamento, la poco cavalleresca lettera anonima e sovente anche la dinamite. Quando ciò non bastava, l’asticella si sollevava ulteriormente e quanto non si riusciva a dirimere per vie legali o illegali, veniva risolto con la violenza più efferata; esattamente come quando il cammino dei sindaci incrociava e veniva coinvolto in quello della vendetta e della rapina, strade lastricate di lacrime e sangue che caratterizzarono la società sarda dell’epoca.
I primi sindaci a perire sotto il fuoco dei nemici furono Giuseppe Antonio Peru ad Aggius nel 1816 e Costantino Camedda a Galtellì nel 1817. Nel settembre del 1825 Antonio Mura Arru, sindaco di Cossoine, rimase miracolosamente illeso in seguito ad un agguato tesogli dal sacerdote Filippo Nurra in complicità con i fratelli Salvatore e Antonio. Non ebbe invece la medesima fortuna quello di Santa Teresa di Gallura, Francesco Comité, assassinato da una fucilata a bruciapelo nelle campagne di Porto Pozzo nel marzo del 1826.
Il 28 febbraio del 1853 fu la volta di Vittorio Piras, sindaco di Sant’Andrea Frius che venne ucciso a fucilate nella sua abitazione durante una rapina architettata da alcuni suoi compaesani. L’anno successivo Aggius verrà nuovamente privato del suo primo cittadino quando Giuseppe Andrea Peru sarà assassinato da una banda guidata dal notaio Francesco Muntoni. Sorte migliore ebbero invece il sindaco di Armungia, Antonio Carboni e quello di Serrenti Giovanni Saiu, che scamparono a due rispettivi agguati nel 1858 e nel 1862.
Il 7 gennaio del 1869 il sindaco Simone Sanna di Posada veniva raggiunto da due fucilate durante un’imboscata che aveva coinvolto anche il segretario comunale Puligheddu che se la cavò con un grosso spavento. Il 7 aprile del 1876 fu sindaco di Olzai Giovanni Maria Mameli ad essere pagato con la stessa moneta.
Destò vasta eco il fatto accaduto a Sorradile il 4 novembre del 1876. Durante una sanguinosa bardana perpetrata ai danni del reverendo Bachisio Madeddu accorsero in suo aiuto alcuni carabinieri e il sessantenne, sindaco, scrivano e proprietario Antioco Onida. Fra i tre simboli del potere di una piccola comunità ebbe scampo soltanto quello religioso. Quello politico e militare vennero abbattuti in una notte sola, con il sindaco e il carabiniere Cristoforo Cuccui da Ovodda che perirono sotto le fucilate dei malfattori.
Negli anni Ottanta si ha notizia di altri tre amministratori trucidati rispettivamente a Perdasdefogu, Orgosolo e Orune con l’assassinio di Antonio Mura nel 1881,Giovanni Soro il 29 agosto del 1883 e di Giuseppe Unida il 30 settembre 1884. Ma è solo l’antipasto di quanto doveva accadere negli anni a venire e che va inquadrato in quello che Ignazio Pirastu ha definito il “decennio più grave del banditismo in Sardegna”. L’omicidio di Efisio Arbau, sindaco di Ollolai, del 4 maggio 1891 inaugurò la tragica carneficina degli ultimi lustri del secolo, dove perirono violentemente altri cinque sindaci sardi. La notte del 2 novembre 1892 Rocco Vaquer, sindaco di Villasor, accompagnato da altri tre compaesani, intervenne in soccorso del signor Antonio Montis che si ritrovò la casa assediata da una banda di grassatori. Non ebbe il tempo di entrarci che cadde all’istante, fulminato da una revolverata alla testa sparata da uno dei fuorilegge. Non andò molto diversamente a Giovanni Maria Serra sindaco di Torralba ucciso il 14 aprile del 1896. Decisamente da dimenticare fu il 1898, con ben tre sindaci da aggiungere al martirologio amministrativo sardo con gli omicidi di Santino Laconi a Ulassai il 4 aprile, Antonio Luigi Corda ad Alà dei Sardi il 7 maggio e Giovanni Vincenzo Atzori a Norbello l’11 ottobre.
In questo clima di lotta per il potere sempre più esasperato dagli omicidi, si aggiunse una vasta gamma di danneggiamenti, intimidazioni e attentati come nell’eloquente caso di Samugheo, dove Don Stefano Sedda, un ricco proprietario da lunghi anni ricopriva la carica di sindaco. Gli avversari non riuscendo a sbalzarlo dalla poltrona per vie consuete passarono ad altri mezzi, sgarrettando il suo bestiame e danneggiando parte delle sue proprietà. Vedendo però che le intimidazioni non producevano l’effetto sperato, i nemici si spinsero oltre e facendo esplodere una carica di dinamite nella sua abitazione lo costrinsero di fatto a dimettersi da sindaco e sentendosi oltremodo minacciato, a lasciare il paese. Un altro esempio lo troviamo nel delicato e controverso processo che si tenne alla Corte di Assise di Cagliari ed ebbe come protagonista la famiglia del sindaco di Meana Sardo, il dottor Giovanni Mura Agus, rappresentata legalmente dal protagonista indiscusso della politica sarda di allora, l’onorevole Francesco Cocco Ortu, del quale il Mura era fidato grande elettore nel collegio di Isili. Fra il settembre e il dicembre del 1891 il Mura e i suoi fratelli subirono una serie di danneggiamenti e attentati incendiari alle loro proprietà, ai quali si aggiunsero pesanti minacce e spari alle finestre della loro abitazione. Vennero chiamati a risponderne come mandanti i componenti di altre due famiglie del paese, i Masala e i Cadeddu Devilla, assieme ad altri cinque meanesi imputati di esserne gli esecutori materiali.
Durante il dibattimento l’accusa insisteva a più riprese sul fatto che gli imputati avessero agito con tali mezzi al fine di intimorire e spodestare dalla carica di sindaco il Dottor Giovanni Mura e il processo si chiuse nel 1894 con la piena condanna di mandanti ed esecutori. La sentenza venne accolta con forti polemiche dalla stampa filogovernativa che allora sosteneva Crispi e nel collegio isilese l’avvocato Enrico Carboni Boy. Da questa breve corrispondenza apparsa su “Il Popolo Sardo” dopo la conferma della condanna in appello si può ben intendere il clima che si respirava allora in una sorta di calderone dove si mischiavano amministrazione locale, politica, giustizia e criminalità.
No, perché, e si ha l’ingenuità di dirlo, la Corte d’appello ha confermato la sentenza
che condannava i danneggiatori del sindaco di Meana Sardo, cugino del Cavalier
Arangino e con quanto margravio negli stati elettorali ove predomina l’onorevole
Cocco Ortu, avvocato della parte civile nell’interesse del margravio. Liquefarsi di giubilo
con la massima ostentazione per la condanna di infelici, che potrebbero anche
essere innocenti, non è atto pietoso. Senza contare che facendo clamore per il responso
della giustizia, fosse anche giusto, si diffonde il sospetto che si aveva il presentimento
che il magistrato dovesse essere restio alla conferma della sentenza.
Anche il nuovo secolo non si presentò sotto i migliori auspici. Il 27 febbraio del 1906, martedì di carnevale, a Bitti la popolazione si ritrovò nella piazza del mercato per i consueti balli. Alle 17.45 mentre la festa era ancora nel vivo, un individuo mascherato si avvicinò a un gruppo di ballerini, estrasse un revolver e fece fuoco a colpo sicuro su uno di loro. Il morto del tragico carnevale bittese fu un giovane sindaco in carica da appena due anni, il farmacista Angelo Mossa Naitana.
Il 23 marzo del 1909 la furia omicida comparve anche nel Sulcis. A Santadi le ultime competizioni elettorali erano state parecchio infuocate e avevano avuto come attore protagonista il facoltoso proprietario Antioco Balia, sindaco dal carattere irruento che si era guadagnato nel tempo parecchie inimicizie. Venne ritrovato cadavere nella regione campestre di S’Arcu de Cambudu dove era stato freddato a fucilate durante un’imboscata tesagli mentre faceva rientro in paese da un suo furriadroxiu.
L’annus horrribilis per gli amministratori isolani fu tuttavia il 1910. La sera del 27 gennaio il sindaco di Ortueri Sebastiano Musu venne colpito da una fucilata che ferendolo a un polmone ne causò la morte appena pochi giorni dopo. L’8 maggio a Nule il latitante di Orune, Raimondo Calvisi, che tre anni prima aveva provato a uccidere, ferendolo con un coltello, il sindaco Francesco Masala, riuscì a portare a compimento il suo proposito, assassinandolo a pistolettate sulla pubblica via. Il 16 agosto, in aperta campagna, due fucilate esplose da dietro un macchione ferirono gravemente Pietro Massaiu, sindaco di Orune, che riuscì a trascinarsi moribondo fino al paese dove spirò poco dopo fra le braccia della moglie Angela Barmina. Un controverso processo celebrato alla corte d’assise di Sassari condannò per questo fatto alcuni esponenti della famiglia Arcadu, con i quali, secondo l’accusa, il sindaco era entrato in contrasto per questioni riguardanti bollettini del bestiame falsificati e per aver partecipato in prima persona all’operazione poliziesca organizzata per catturare il latitante Cossu che, una volta scovato, era stato ucciso dai carabinieri. Infine, il 13 dicembre, durante una bardana che prese di mira il piccolo centro di Sisini rimase ucciso soffocato dai rapinatori uno dei più ricchi proprietari terrieri della Trexenta, il sindaco Francesco Aresu.
Anche il 1911 ebbe la sua vittima. Il sindaco di Aggius, Anton Pietro Spezzigu noto “Cosciganu” venne assassinato da ignoti la mattina del 10 luglio in località La Ciacca, a un chilometro dal centro abitato. Stessa sorte per il sindaco di Belvì Salvatore Pruneddu colpito al cuore da una fucilata mentre il 5 ottobre del 1912 rientrava dalla campagna con la moglie Raffaela Marotto. Venne da subito indicato come autore del delitto il compaesano Nicolò Mura che nel luglio del medesimo anno era stato denunciato dal sindaco per contravvenzione alla vigilanza speciale e aveva giurato di vendicarsi. Il Mura datosi alla latitanza, venne ucciso poco dopo durante uno scontro a fuoco con i carabinieri di Aritzo.
Dopo quest’ ultimo omicidio la situazione cambiò radicalmente. L’introduzione del suffragio universale maschile nel 1913 e l’esplosione dei partiti di massa di stampo socialista e cattolico, tolsero al vecchio notabilato rurale il controllo che aveva esercitato per decenni sulla volontà elettorale e con esso chiaramente, una grossa fetta di potere. Nel primo dopoguerra sparirono per sempre le grassazioni di matrice ottocentesca per fare spazio a nuove tipologie di reati e cominciò a cambiare anche la figura del sindaco alla quale potevano ora aspirare anche gli esponenti delle classi popolari. Questo processo troverà pieno compimento soltanto nel secondo dopoguerra con la caduta del regime fascista, con i tanti problemi da affrontare e i rischi che comportava il ruolo di primo cittadino, ma lasciandosi decisamente alle spalle quella lunga ondata di sangue e violenza che aveva lasciato sul campo delle amministrazioni isolane ben 24 croci.
Ottima lettura storica come sempre Maurizio!!!!!!! complimeni davvero per l’articolo!!!!!!!!!!! 🙂