Le trombe di Gerico suonavano già da qualche tempo in città, ma nessuno le sentiva. Sembrava che ai cagliaritani ciò non riguardasse, quasi che gli eventi bellici fossero una faccenda estranea, distante e a prestar fede ai bollettini e alla stampa di regime, presto o tardi, le forze dell’Asse avrebbero inesorabilmente trionfato. Venne il 17 febbraio del 1943 e per la prima volta Cagliari conobbe la crudeltà della guerra moderna. L’inferno arrivò dal cielo, ma era soltanto l’antipasto di quanto sarebbe accaduto nelle settimane a venire, quando i bombardamenti anglo-americani avrebbero letteralmente polverizzato la città, riducendola a un deserto di macerie.
Dall’inizio del conflitto anche Cagliari e la Sardegna avevano da subito conosciuto gli allarmi aerei e i bombardamenti dell’aviazione francese e della R.A.F, che tuttavia colpirono soltanto obbiettivi militari e strategici situati nei dintorni. La situazione non mutò neppure con la dichiarazione di guerra dell’Italia agli Stati Uniti del dicembre 1941 e le incursioni dei velivoli alleati continuarono ad attaccare principalmente gli aeroporti di Elmas e Monserrato.
Mercoledì 17 febbraio 1943. Un leggero maestrale non turba la bella giornata. L’alta temperatura e il cielo limpido sembrano annunciare una precoce primavera. Nonostante la tessera annonaria, il razionamento, i duecento grammi di pane al giorno, latte e carne in minime quantità, la guerra sembra veramente lontana. Sono passate da poco le 14 quando la popolazione percepisce qualcosa di insolito e viene colta di sorpresa da uno strepitio di mitragliatrici e dal fragore della contraerea. Nessuna sirena ha suonato, nessun allarme è stato diramato, dalle strade, dai balconi e dalle terrazze le persone stanno col naso all’insù cercando di capire cosa stia accadendo.
Due formazioni della U.S. Army Air Forces piombano improvvisamente sulla città. Divise in gruppi da sei e nove aeroplani effettuano un bombardamento con ordigni di piccolo calibro, uno spezzonamento incendiario e danno il via a un terrificante mitragliamento pesante. La tempesta di fuoco si scatena proprio nei punti dove la gente cerca di raggiungere i rifugi. A Stampace, nello spazio antistante la cripta di Santa Restituta, bastano pochi spezzoni per determinare una carneficina. “Verso le 15 – racconta Dino Sanna nell’Almanacco di Cagliari del 1973 – tutto precipitò, la terra cominciò a tremare. Dappertutto. E sopra c’era una capa di vibrazioni iterate, montanti, sempre più intense, che sembravano aggredire e squarciare le case. Sciabolate d’ombra sulle strade e sui tetti e uno snocciolio secco fra il polverone che eruttava”.
“Nel porto – aggiunge Francesco Spanu Satta ne ‘Il dio seduto. La Sardegna dal 1942 al 1946’- gli scafi delle navi colpite, e poi avvolte in un rogo immane, giacevano come animali preistorici senza vita. Le banchine erano sconvolte. A pochi metri da quello che sembrava l’obbiettivo militare dell’incursione, dalle macerie di via Roma, giungevano i lamenti degli agonizzanti. Nelle strade laterali, ovunque, cadaveri martoriati e irriconoscibili”.
Sono le 15 e 47 minuti quando l’aviazione alleata si dirige verso altre mete: Quartu, Carbonia, Porto Scuso, Villacidro e soprattutto Gonnosfanadiga dove la carneficina si ripete. Un silenzio spettrale avvolge la città per alcuni minuti, fin quando, timorosamente, le squadre di soccorso e quelle dei vigili del fuoco cominciano le operazioni. Verso le 16 e 30 per via Ospedale procede lenta un’atroce processione degna di un film horror; ragazze sfigurate, bambini mutilati, uomini e donne dagli abiti logori che si trascinano lividi, come zombie, lasciando dietro di se un’impressionante scia di sangue. Altri raggiungono il nosocomio trasportati su portantine, barelle e mezzi di fortuna.
Quel 17 febbraio morirono circa cento persone e si contarono 235 feriti. La catastrofe era cominciata. Nei giorni successivi dalle colonne de ‘L’Unione Sarda’ oltre a maledire “i feroci piloti dell’ebreo Roosevelt”, si sprecavano i commenti retorici per il “superbo, fiero, calmo, ammirevole contegno della popolazione” e si incitava “la gente di Sardegna, adusa alla dura quotidiana lotta”, a resistere a qualunque costo, “fino all’ultimo istante”; aggiungendo che “il lutto maschio, fiero, forte della gagliarda razza dei sardi”, non avrebbe smentito le sue tradizionali virtù, né sminuito l’odio contro il nemico; odio che avrebbe dato nuova linfa allo spirito delle popolazioni “per il proseguimento della lotta che avrebbe condotto alla certa vittoria”.
L’ultimo giorno del mese le vittime sarebbero state 400. L’indomani la popolazione avrebbe abbandonato la città in massa, dando vita al fenomeno dello sfollamento verso i paesi dell’interno dell’isola. Un esodo di circa settantamila persone.
“Ora la guerra le era veramente addosso, incredibile e feroce come nessuno aveva pensato che potesse succedere” – scrisse Francesco Alziator ne ‘L’unione Sarda’ del 1958 – aggiungendo: “Così era la Cagliari 1943, che le carneficine del febbraio e del maggio avevano fatto deserta. Una Cagliari dove la guerra non era più retorica, comoda, dannunziana. Una città abbandonata, sconnessa, dilaniata, fatta rifugio di ladri, nella quale i morti rimanevano insepolti per giorni, puzzolente, ripugnante, assetata, abbandonata dagli uomini e dai santi, nella quale erano rimasti soli a vegliare un Gesù incanutito nella tragedia e il suo fedele servo Efisio”.
Dopo Napoli, Cagliari fu la città più bombardata d’Italia, con oltre il 75% degli edifici distrutti o dichiarati non agibili. Da quelle ceneri, rinascerà in pochissimo tempo la Cagliari che oggi conosciamo e che, a 80 anni da quel 17 febbraio, ancora porta, non tanto come monito ma forse più per incuria e trascuratezza amministrativa, le cicatrici di quelli che sono stati con tutta probabilità i mesi più tragici della sua millenaria esistenza.