La settimana scorsa si sono svolte le sfilate di Haute Couture a Parigi, dove le principali case di moda del lusso hanno presentato le loro collezioni per l’autunno inverno 2023/24. In calendario hanno sfilato 32 marchi e si distinguono dal pret-à-porter che sono centinaia, non solo perché propongono solo due collezioni l’anno, ma anche perché i capi sono realizzati in pochi esemplari e le sfilate sono disciplinate dai rigidi regolamenti della Fédération de la Haute Couture et de la Mode (FHCM).
L’Alta Moda rappresenta forse una ricerca del bello anacronistica, una moda per pochi eletti che diventa fuori contesto nel mondo di oggi dove tutto è riproducibile alla velocità di un battito di ciglia a servizio della massa. Tralasciando gli operatori del settore, se ne parla pochissimo perfino nei quotidiani che normalmente dedicano lunghi approfondimenti durante le canoniche settimane della moda, certamente più fruibili. In realtà non è strano e non decreta per nulla la fine di questo settore. Anzi, lo riporta a quel modo di percepire la creatività come sperimentazione e eccesso, anche nei costi e se da una parte potrebbe risultare poco democratico, dall’altra è necessario che l’Alta Moda mantenga vive le conoscenze artigiane del fatto a mano, l’unicità di un abito realmente pensato e l’impossibilità di riprodurlo in serie più e più volte. Il pezzo unico allora ha ragione di esistere come arte da tramandare. Ha una sua logica perfino se pensiamo alla sostenibilità, tema sul quale tutto il sistema moda fatica a stare al passo. Abbiamo parlato diverse volte di sostenibilità ambientale e di cosa significhi essere un marchio sostenibile (qui, qui e nell’intervista a Yannik Zamboni) e questo include produrre poco, caratteristica imprescindibile dell’ Alta Moda.
Politicamente corretto e scorrettamente green
Anche se ormai si sa bene che l’industria della moda sia una delle più inquinanti al mondo, la produzione di abbigliamento fatica a stare al passo con la questione della sostenibilità ambientale ed etica sul lavoro. La corsa al cambiamento sembra aver sensibilizzato solamente il settore marketing, per tutto il resto poco è cambiato. La scappatoia attuale è quella di parlare quasi esclusivamente di inclusività e di tessuti riciclati, naturali, riadattati, conservati e riutilizzati. Certo, anche questi sono parametri di valutazione per dichiarare la sostenibilità di un marchio, ma come spesso succede nel mondo patinato della comunicazione se il messaggio è trasmesso in una certa maniera, cancella il punto nodale del tema. Concretamente non si è andati troppo avanti, questo perché le aziende di moda continuano a sostenere il modello economico attuale rivolto al consumo e tendono a mascherare uno dei problemi più difficili da sormontare: sovrapproduzione e smaltimento dei rifiuti. Parliamo in questo caso di quelle colorate quanto micidiali montagne di vestiti letteralmente accatastati nelle personali discariche occidentali di questo mondo, i Paesi più poveri sfruttati sia nel territorio che nella forza lavoro.
L’esempio del jeans
Banalmente, produrre un unico jeans nel classico tessuto denim, con le sue scoloriture e finissaggi particolari o tinture, ha un impatto ambientale gravissimo a causa dell’utilizzo di componenti chimici non smaltibili e pericolosi per l’essere umano. Dato che in Europa andrebbero rispettati certi parametri, la maggior parte delle produzioni dei jeans viene affidata a Marocco, Bangladesh, India e Indonesia, per citare i maggiori produttori. Il jeans è in assoluto il capo più venduto al mondo, trasversale al punto da essere acquistabile in qualsiasi fascia di prezzo e la quantità richiesta è talmente alta che le aziende di facciata, quelle che i marchi occidentali mostrano per prendersi il merito della filiera controllata, demandano interi segmenti della produzione a terze parti con condizioni di lavoro inaccettabili e a quel punto, prive di controllo. In sintesi, il famoso pantalone a cinque tasche è il capo più venduto, il più prodotto, il più inquinante.
Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino per quest’ultima collezione di Alta Moda ha voluto proporre varie declinazioni del jeans. Ma perchè, anche in questo caso, una collezione di Haute Couture è più sostenibile di una collezione di pret-à-porter? La risposta sta nelle normative che regolano le case di Alta Moda moda parigine, comprese quelle italiane o straniere che presentano le collezioni a Parigi: ogni maison deve presentare capi realizzati manualmente, su richiesta disegnati e personalizzati per clienti privati, avere un laboratorio a Parigi con almeno 15 operai e 20 tecnici, ossia sarte in loco. Questo è il punto fondamentale che rende sostenibile qualsiasi marchio artigianale, anche se non ha sul petto lo stemma di Maison di Haute Couture e anche se è qui a Cagliari. Intervenire sulla filiera è più facile se non si delocalizza quasi totalmente la produzione al fine di raggiungere quantità inutili per avere costi criminalmente troppo bassi. Si può fare e ne parleremo ancora.