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Vent’anni di ”Assandira”, il capolavoro di Giulio Angioni tra antropologia e letteratura

Di Mattia Lasio
23/03/2024
in Cultura, Libri
Tempo di lettura: 5 minuti
Vent’anni di ”Assandira”, il capolavoro di Giulio Angioni tra antropologia e letteratura

Nella letteratura come nella vita, afferma il celebre scrittore ungherese Sándor Márai nella sua opera ‘’Terra, Terra!’’, solo chi tace è sincero.  E se al silenzio si allude, questo elemento non manca di certo a Costantino Saru protagonista di ‘’Assandira’’ una delle fatiche letterarie più intense e significative di Giulio Angioni di cui ricorrono i vent’anni dalla sua uscita per Sellerio e da cui nel 2020 è stato tratto l’omonimo film diretto dal regista Salvatore Mereu, con protagonista il noto scrittore Gavino Ledda nei panni di Costantino Saru. Un’opera che mostra la perfetta commistione tra l’essere antropologo sopraffino e al contempo narratore elegante di Giulio Angioni, a lungo docente di Antropologia culturale alla Facoltà di Studi umanistici di Cagliari, cresciuto sotto l’attento sguardo di maestri del calibro di Alberto Mario Cirese ed Ernesto de Martino. Un’opera che non smette di offrire spunti di riflessione, firmata da una delle personalità di maggior spicco della cultura sarda venuta a mancare il 12 gennaio del 2017 all’età di 78 anni.

Le 239 pagine che compongono ‘’Assandira’’ sfuggono alle definizioni e ai generi letterari. Una parte della critica ha avanzato l’ipotesi che si trattasse di un ‘’giallo’’ ma basta soffermarsi attentamente su quanto scritto da Angioni per rendersi conto che l’incendio doloso che causerà la morte del giovane figlio di Costantino, ovvero Mario, e le conseguenti indagini portate avanti dal magistrato inquirente Silvio Pestis, sono solo un pretesto per indagare nei minimi dettagli la realtà agropastorale sarda in tutte le sue sfaccettature e un’occasione preziosa per scandagliare i tormenti di una figura taciturna come quella di Costantino Saru, che ha dedicato la sua esistenza alla pastorizia, settore caratterizzato da una fatica che va al di là della stanchezza fisica.

Una fatica che Costantino non ha dimenticato e che lo ha forgiato, rendendolo ombroso e schivo, finendo per costruire attorno a sé un muro apparentemente impenetrabile che crollerà nel momento in cui il figlio Mario, 32 anni, e la sua compagna danese Grete Hamrin, 35 anni, gli proporranno di costruire un agriturismo, chiamato proprio ”Assandira” nome evocativo carico di suggestioni. I due giovani hanno l’entusiasmo tipico dell’età, vedono nella località di Gennemari vicino a Fraus la meta ideale per realizzare qualcosa di duraturo, di godibile e in grado di garantire ottimi guadagni. Non hanno dubbi sulla buona riuscita dell’impresa, a differenza di Costantino che da subito si mostra titubante e diffidente: padre e figlio esprimono due concezioni del mondo diverse, e si scontrano su vari argomenti come il significato che assume il ruolo del pastore, il valore del turismo e di ciò che rappresenta per lo sviluppo e la crescita della Sardegna. Per Mario qualche piccolo compromesso folcloristico non è nulla di negativo e compromettente ma per Costantino, che pastore lo è stato tutta la vita, rimettersi la mastruca e la berritta per impressionare i turisti è un qualcosa di profondamente sbagliato. Eppure, nonostante ciò, cambierà idea per il bene che nutre verso il figlio e la nuora che, con i suoi modi delicati e gentili, riesce a penetrare nell’animo rattristato del vecchio Costantino. Un animo segnato dalla perdita della moglie, temprato dal duro lavoro ma comunque non indifferente ai sentimenti. Sentimenti che non si sarebbe mai immaginato come quello verso Grete, per cui prova un’attrazione di cui si vergogna. Ed ecco spuntare un altro tema centrale in ‘’Assandira’’ ovvero la vergogna che insieme alla colpa rappresentano i due fulcri attorno a cui ruotano le riflessioni tormentate di Costantino.

Il vecchio pastore è un protagonista diverso da altri celebri personaggi che popolano la letteratura sarda: è un uomo consapevole delle sue debolezze e della finitezza dell’esistenza, un fatalista d’indole profondamente disilluso che dalla vita non si aspetta nulla, soprattutto tenendo conto che questo è un mondo dove, per rifarsi alla sue stesse parole, la grazia e la disgrazia vanno a caso. Disgrazie come la perdita del figlio nell’incendio accidentalmente appiccato dallo stesso Costantino, uno dei frangenti di maggiore drammaticità dell’opera che Costantino ripercorre con grande dolore, facendo emergere il suo senso di totale impotenza davanti alla perdita di Mario. E a proposito di colpa, questo aspetto affiora completamente nelle parole di Angioni che a pagina 115 scrive: “niente di più ingiusto al mondo che trovarsi davanti alla morte del proprio unico figlio, morto feroce dopo vita breve, niente di più colpevolmente irrimediabile”. Irrimediabile come la fine prematura di quello che sarebbe dovuto essere il suo nipotino Costantino, ancora nel grembo di Grete e morto prima ancora di nascere a causa dell’incendio, frutto dell’inseminazione artificiale a cui ha contributo proprio Costantino seppur all’inizio fosse poco propenso a fare ciò, un qualcosa di totalmente sconosciuto per lui, distante più che mai da metodi che un uomo con il suo percorso di vita, cresciuto in un realtà e con una educazione di tutt’altro stampo, riteneva quasi privo di senso.

Il valore del ricordo è un altro aspetto rilevante dell’opera. Perché è nei ricordi di Costantino, espressi con semplicità e con un linguaggio essenziale e scarno, che si coglie la sua personalità e la sua stessa concezione di cosa significhi la vita. Una vita diventata dramma, vissuta con enorme dignità e un orgoglio che va al di là della semplice fierezza. Una dignità frutto di una vita quotidiana complessa, trascorsa a lavorare duramente e a parlare poco, una dignità distante dalle chiacchiere e dai sorrisi di circostanza di cui invece l’agriturismo Assandira è pieno zeppo e in cui Costantino, seppur finirà per contribuire alla sua creazione, non crederà mai davvero definendolo “tutta una mascherata”.

Nel dialogo finale, caratterizzato da un confronto serrato tra il dottor Silvio Pestis e il vecchio pastore, il ritmo della narrazione si fa sincopato, frenetico, dai tratti pirandelliani. Costantino si sente colpevole, dice di essere lui la causa dell’incendio, pronuncia frasi a metà in cui i concetti di colpa e vergogna si presentano ossessivamente, tanto da confondere il magistrato che ammette di non riuscire a capire dove Costantino voglia andare a parare. Chi cerca una fine e una morale in ‘’Assandira’’ rischia di perdersi  il messaggio più pregnante trasmesso da Angioni ovvero quello che, talvolta, un finale chiaro non esiste e non è nemmeno necessario, così come non esistono persone completamente colpevoli così come innocenti. Spesso,  gli esseri umani altro non sono che in balia di se stessi proprio come il vecchio Costantino Saru che, nell’ultima scena descritta da Angioni, si allontana stancamente seguito dal suo cane Pirarba dirigendosi stravolto verso il pagliaio in totale silenzio. Un silenzio complesso che pretende rispetto e che mostra che non tutto può essere spiegato o compreso. E, in alcuni casi, è meglio che sia così. 

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