Fra le novità della 29esima edizione di Monumenti Aperti a Cagliari, la città che battezzò l’iniziativa culturale ormai diventata un evento di caratura nazionale, spicca la Scala di Ferro, uno dei simboli della città che nella seconda metà del diciannovesimo secolo cessava di essere una piazzaforte militare e, buttando giù o adattando i suoi antichi bastioni, cambiava radicalmente pelle e si apriva al mare, al mondo e ai commerci.
Sotto l’attuale struttura, che si appresta nuovamente, dopo decenni, a tornare almeno in parte alla sua funzione originaria, quella del migliore hotel cittadino, durante i lavori di inizio millennio per la realizzazione di parcheggi interrati venne rinvenuta una piccola ma varia, per cronologia e tipologie sepolcrali, necropoli di epoca tardorepubblicana e imperiale. I visitatori, oltre a poter vedere quanto resta dello storico albergo, avranno accesso a quest’area museale, preservata grazie a un compromesso progettuale fra impresa e Comune di Cagliari, dove sono conservate, nel luogo del loro ritrovamento, le tombe di una famiglia vissuta a Cagliari tra la fine del I ed il III sec. d.C. e alcune tombe ad incinerazione sormontate da cippi in pietra con iscrizioni e sobrie decorazioni si affiancano a più tardi sarcofagi in calcare, testimonianza del passaggio al rito dell’inumazione.
“La Scala di Ferro è il Grand’Hotel di Cagliari, che ci ebbe ospiti per parecchi anni: di fuori è imponente, ornato com’è di torri e di merli medioevali; dentro, però, perde ogni cipiglio; un magnifico pino getta la sua ombra patriarcale nel giardinetto, dove un asino, celebre presso tutti i viaggiatori per la sua laboriosità e per la sua temperanza, lancia ragli riconoscenti a chi lo regala di qualche zuccherino. L’Hotel è sempre affollato di gente: ufficiali, commessi, professori, viaggiatori, tutti di passaggio e non tutti per libera elezione; di guisa che, dopo essersi ben rimpinzata di grive e aver vuotato bottiglie di vernaccia, al dessert, tra un sigaro e l’altro, si sfogano a lanciar moccoli contro il paese che li ospita”. Così scriveva nel 1905 Paola Lombroso, in un affettuoso bozzetto scritto in occasione compleanno del figlio Enrico, “Chicchi”, nato a Cagliari cinque anni prima.

Allora la Scala di Ferro era il più rinomato albergo cittadino e avrebbe tenuto la sua fama almeno fino al secondo dopoguerra, ospitando nelle sue stanze illustri personaggi, da David Herbert Lawrence a Carlo Levi, passando per Gabriele D’Annunzio, Vittorio Alinari e Totò, dei quali si trovano tracce nelle cronache e nella letteratura a cavallo fra Otto e Novecento. Nessuno di loro, probabilmente, sapeva che anticamente gli spalti sopra i quali si adagiava quell’edificio in stile neogotico che ricordava un castello medioevale avevano un nome sinistro. Anche se ufficialmente, sin dall’epoca spagnola, quando vennero costruite le mura orientali della città, veniva denominato prima come Bastione di San Jacopo e in seguito Bastione della Vergine di Monserrato, per la stretta vicinanza con l’omonima chiesa e col convento dei benedettini di Spagna, per i cagliaritani, dalla metà dal diciottesimo secolo, era semplicemente il “bastione dei morti”.
Il nome non deriva dal fatto che, come sarebbe tristemente spettato in sorte ad altre mura cittadine, vi accorressero gli aspiranti suicidi per mettere fine alla loro esistenza, ma dall’aver creato nelle sue adiacenze un cimitero riservato ai militari che finivano i loro giorni nel vicino presidio ospedaliero per truppa inaugurato dal governo sabaudo nel 1755. Tuttavia i cagliaritani dell’epoca, a loro volta, non potevano sapere che quel nome non era affatto inopportuno o esagerato, ma, per uno singolare scherzo della storia, assolutamente appropriato; alla base di quelle mura, molti secoli prima, esisteva infatti una piccola necropoli sepolta dalla polvere del tempo.
Prima che la città avesse contezza di questo fatto però, l’area posta ai limiti del quartiere della Marina, nel tratto compreso fra i bastioni del Jesus e della Leona, avrebbe conosciuto diverse vicissitudini e varie destinazioni d’uso che in qualche modo caratterizzarono la storia cittadina. Il cambiamento più radicale avvenne con il regio decreto del 30 dicembre 1866 che toglieva a Cagliari la funzione secolare di piazzaforte militare e avviava quella rivoluzione urbanistica che si sarebbe concretizzata pienamente in epoca baccareddiana. In linea con l’idea di una città moderna che attraverso il suo porto guardava e si connetteva col mondo, un imprenditore di origini biellesi, l’ingegnere Antonio Cerruti, aveva acquistato l’area ceduta dal Ministero della Guerra adiacente al Teatro Moderno da egli stesso costruito nel 1859 sulla quale impiantò in seguito una ghiaccia, dove conservava le nevi che arrivavano dalla lontana Lapponia e gestiva uno stabilimento termale, i Bagni Cerruti, dotato di venti vasche in marmo che almeno per un certo periodo sarebbero state rifornite con le acque termali portate da Sardara. Era nata di fatto la prima Spa cittadina.

L’albergo con le camere a vista sul mare e le torri sarebbe sorto nei primi anni Settanta dell’Ottocento. Fra abbellimenti, nel cortile interno stava una fontana opera del Sartorio, uno che, considerando il passato del sito, di tombe e lapidi se ne intendeva; cambi di gestione, il bar e il ristorante furono acquistati da Luigi Caldanzano, già proprietario del Cafe Roma; fallimenti, comprato all’asta dall’esattore comunale Giuseppe Setti e da allora spesso chiamato anche Castello Setti, fu in qualche modo l’emblema della città en marche di Ottone Baccaredda destinata a perdere spinta con l’avvento delle guerre novecentesche. La struttura, lodata per il suo caffè e per il ristorante ma spesso criticata per la poca cura riservata alle stanze, conobbe le bombe del 1943 – come aveva fatto il precedente baluardo nel 1717, quando la flotta di Filippo di Spagna vi aprì una breccia a cannonate nel disperato tentativo di riconquistare l’isola che dopo la breve parentesi asburgica stava per passare ai Savoia – si riprese negli anni Cinquanta per poi chiudere definitivamente i battenti e dormire in stato di abbandono per quasi quarant’anni. Il sonno andava di pari passo con quello profondo di una città che aveva distrutto il suo mercato e altri preziosi monumenti del suo passato, non solo per la guerra, come avrebbe sottolineato il poeta Aquilino Cannas nei suoi versi, ma soprattutto perché, come scrisse Francesco Alziator, quod non fecerunt barbari… fecero le amministrazioni. La lapide, orami sbiadita, che ricorda il breve soggiorno nell’albergo di David Herbert Lawrence nel 1921 fa quasi tenerezza.
Durante i lavori di inizio millennio per la realizzazione di parcheggi interrati avvenne la scoperta dell’area archeologica che permise di aggiungere un ulteriore tassello alla storia antica cagliaritana, un luogo che molti cittadini non conoscono e che potranno visitare in occasione di Monumenti Aperti 2025 riscoprendo così un luogo che dall’epoca repubblicana romana in poi ha contraddistinto le vicende dei vivi e dei morti e che presto, pare, tornerà a ospitare turisti e viaggiatori. Dopo tutto è questo che ha fatto, con alterne fortune, nei lustri passati di una città che sognava, quella, per dirla con Salvatore Cambosu che era “la bandiera, l’avventura, la luna da toccare con mano, l’iniziazione ai misteri” e che oggi ricorda un poco quella di un altro attento osservatore del passato, Ranieri Ugo, una città che “accarezza con sentimento di eletta modernità, la gloria del mare e del mercato e la vita spensierata dei caffè”. Una città in definitiva, come recita il motto della ventinovesima edizione di Monumenti Aperti, “dove tutto è possibile”, anche riscoprire alcune parti nascoste del suo lungo passato.