Isabelle Eberhardt, chi era costei? La domanda è semplice, la risposta invece non è delle più agevoli. Svizzera di nascita, francese d’adozione, aveva radici tedesco-baltiche e russe. Dedicò la sua intera e breve esistenza ai viaggi e alla scrittura. Giovane, attraente, passionale, anticonvenzionale, cosmopolita e poliglotta, rivendicava il diritto al vagabondaggio, amava vestirsi da uomo e vagare in solitaria per il deserto del Sahara. Conobbe il sufismo, si convertì all’Islam e morì nel 1904, appena ventisettenne, nei tragici giorni dell’inondazione di Aïn Séfra, in Algeria. La sua figura e la sua produzione letteraria sono state riscoperte estesamente soltanto a partire dagli anni Settanta, quando divenne un modello per il movimento di rivendicazione femminista. Grazie ad un diario abbiamo notizia del suo inquieto soggiorno cagliaritano nei primissimi giorni del 1900 che ci ha restituito un singolare spaccato cittadino dell’epoca e alcuni tratti del suo animo agitato e ribelle. Quello stesso gennaio, per uno strano gioco del destino, la città ospitava altra due donne, tutt’altro che convenzionali, che sarebbero passate alla storia. Erano Grazia Deledda e Paola Lombroso.

Sul soggiorno in Sardegna di Isabelle Eberhardt e sul motivo del suo viaggio i biografi hanno avanzato le più diverse congetture. Chi la vuole sola, non solo metaforicamente, chi in compagnia del suo amante Mohammed Rachid, altri ancora, di un giovane incontrato casualmente nel suo peregrinare, tale Abdul Aziz Osman, un tunisino esiliato dal Bey per le sue idee politiche radicali. Alcuni hanno scritto che venne in Sardegna per trovare il fratello Augustin che si era sposato con Hélène Long, una donna poco colta che lei detestava profondamente, chi ipotizza invece un viaggio in una terra poco conosciuta per reagire allo sconforto causatole da gravi lutti che avevano colpito la sua famiglia. In poco tempo aveva perso la madre Nathalie con la quale era stata in Algeria nel 1897 e si era convertita all’islam, il suo tutore, secondo alcuni il suo vero padre, l’ amante della madre Alexander Trofimovsky, un ex sacerdote russo che in famiglia chiamavano Vava, e ll fratello Vladimir morto suicida.
Proveniente da Marsiglia, attraverso Genova, il 31 dicembre del 1899 s’imbarcò per la Sardegna da Livorno, giungendo a Cagliari la mattina del primo giorno del nuovo secolo, dopo un viaggio in un mare agitato e minaccioso che sembrava riflettere il suo stato d’animo malinconico, carico di paure e furia repressa. Così scrive sul suo diario, usando il maschile: “Sono solo, seduto davanti alla grigia immensità del mare sussurrando… sono solo… solo come sono sempre stato ovunque, come sarò sempre in tutto il grande Universo affascinante e deludente, solo, con, dietro di me, un mondo intero di speranze deluse, illusioni morte e ricordi diurni giorni più lontani, diventando quasi irreali. Sono solo, e io sogno [.. ]In questo momento ho un solo desiderio: vestirmi il più velocemente possibile della personalità amata che, in realtà, è quella vera, e ritornare lì, in Africa, per riprendere questa vita… sono venuto qui per sfuggire alle macerie di un passato lungo tre anni”.
Per sette giorni si sistemò all’albergo Quattro Mori del largo Carlo Felice, vicino al mercato civico, poi cambiò alloggio andando ad abitare al numero 14 di via Barcellona, ospite della signora Vincenza.
A Isabelle fu detto che la Sardegna somigliava all’Africa e in qualche modo questo assunto non venne disatteso. Si trovava a suo agio in questa piccola “capitale, tutta dorata sulla sua roccia bianca, dove colano come colate di terra rossa macchie di sangue, increspate, caotiche, dominando la sua grande baia azzurra”, ma questo non le impediva di vedere le storture e i problemi di una città in quel periodo in forte cambiamento e di sottolineare alcuni caratteri dei suoi abitanti, anche se con rammarico alla fine scriverà : “Non mi è stato dato di vivere, come ho fatto altrove, la vita del popolo sardo, e le impressioni che ho riportato da lì sono fugaci e anche un po’ vaghe”.
Meditava e scriveva in una città che trovava “chiusa, schiacciata dal peso delle convenzioni, cattolica fino al fanatismo; al punto che la gente vive in chiesa più spesso che a casa.” Rimase colpita e quasi disgustata dalle condizioni indigenti della maggior parte della popolazione: “per le strade, un gran numero di persone portava su di sé l’indice della povertà e soprattutto della grande privazione; molti erano mal calzati e cenciosi”; si irritava alla vista di un “mendicante umile e degradato, timoroso, curvo davanti al ricco e allo straniero, ossequioso fino a quando non perderà ogni dignità umana” e rabbrividiva di orrore davanti a is bascius, “grotte, cantine indicibili, nere e puzzolenti”, con famiglie intere, ammassate, malaticce, tremanti anemia e febbre[..] Un raggio di luce non è mai scivolato lì, dentro questa oscurità deleteria, dove tanti esseri vegetano nel marciume e nell’infezione”.

In quello stesso periodo viveva a Cagliari Paola Lombroso che spesso, scrivendo articoli per alcune testate giornalistiche, raccontava la città con un particolare occhio di riguardo all’infanzia abbandonata, la stessa che vede Isabelle e che indica come una “massa di bambini appena vestiti, gracili e mal vestiti che segue ostinatamente i passi dei passanti”. Ma in quelli stessi giorni, fresca di nozze con Palmiro Malesani, soggiornava anche Grazia Deledda che scelse Cagliari per la sua luna di miele, la “citta dell’amore” la definì, aspetto che non sfuggì alla Eberhardt che, alla pari della scrittrice nuorese descrisse su fastigiu: “Le donne escono poco, raramente da sole, e sono guardate con accanimento. Ma, all’imbrunire, si vedono quasi sotto tutti i pochi balconi, sotto tutte le finestre, giovani dall’aspetto misterioso, che sfiorano i muri e passano ore, con gli occhi alzati verso le cose nascoste dietro le tende, appena scostate di spessore, e scambiando con loro dichiarazioni brucianti – a gesti . Questo è ciò che lì si chiama far’ l’amore … Anche le serenate fanno parte del costume e, spesso, si vede un giovane, accompagnato dai suoi amici, suonare il mandolino o la chitarra, e cantare sotto le finestre della sua casa. Bellezza invisibile”.
Lo sguardo di Isabelle è variabile. A volte languido, come quando racconta di una ragazza affacciata dal parapetto del bastione di Santa Croce, “una fanciulla che sembra sognare, nel rosso fuoco della sera. Indossa un abito leggero di mussola azzurra. Una mantiglia di pizzo bianco ammorbidisce la lucentezza dei suoi capelli neri e dei suoi occhi scuri. Ha un’aria candida e malinconica”; altre volte severamente spietato, come per i galeotti del bagno penale di San Bartolomeo che “hanno tutti la stessa espressione di bestiale indifferenza su volti di prematura senilità, sinistramente scimmieschi” o per le prostitute: “al calare della notte, ci sono certi quartieri dove delle orribili sgorbie, sotto i loro stracci sporchi, escono dalle loro volte per aspettare i marinai e i soldati in atteggiamenti smidollati e bestiali”.
Forse nei suoi giudizi, oltre qualche diffuso luogo comune, pesava il suo umore altalenante fra l’errabondo e una malinconia che sembrava inestinguibile e sprazzi di luce di razionalità dettati dalla meraviglia che in qualche modo suscitavano in lei Cagliari e le altre zone della Sardegna, non le sfuggì neppure “l’odio inconciliabile, eterno” fra cagliaritani e sassaresi, che riuscì a visitare e che in qualche modo la riparavano dalla “civiltà”. Uno spiraglio di positività si accende quando quanto vede le ricorda il mondo islamico : “Gli uomini, vigorosi e abbronzati, sono alti e di aspetto feroce. Il loro tipo ha qualcosa sia di greco che di arabo. Le donne, indolenti e claustrali quasi quanto in Oriente, hanno conservato i tratti dei conquistatori moreschi: l’ovale regolare del viso e gli occhi grandi e pesanti”.

La permanenza di Isabelle Eberhardt in Sardegna fu breve, appena un mese. Lasciò a malincuore Cagliari. Le partenze erano sempre difficili per lei, che in ogni luogo che visitava trovava un fascino nuovo e accattivante. “Questa notte gli echi di Cagliari risuonavano con i tuoni che rimbombavano… Oggi il mare ha assunto il suo aspetto più sinistro; ha riflessi vitrei o lividi. Qui tutto è finito, e domani parto per ricominciare la lotta sinistra, la lotta feroce che continua per una tomba chiusa da otto lunghi mesi, per una vita abolita e restituita al mistero originario”.
In città aveva avuto modo di lavorare alla stesura del suo romanzo ‘Trimardeur’ e di concentrarsi sulla sua solitudine, sul suo “mondo di speranze deluse, illusioni e ricordi spenti, ogni giorno più lontani, al punto da diventare quasi irreali”, congedandosi dall’isola con un passo di rara bellezza: “Ho lasciato Cagliari all’inizio della primavera, dopo un mese di inverno che somigliava alle estati del nord della Francia. Mi ha lasciato un’ultima visione di lei aurata da una luce già più bionda e abbagliante, che aveva fatto fiorire i germogli di tutti gli alberi, avvolgendoli come in una leggera nebbia, di un tenero verde. I mandorli ricoprivano il terreno con i loro petali innevati. I meli erano ricoperti di fiori candidi, con, sul fondo di ogni calice, una goccia di sangue cremisi. Sul monte e nella valle, tra le tombe e tra le rovine, iris purpurei e bianchi asfodeli si affrettarono a crescere prima del caldo estivo. Il tepore inebriante delle notti profumate moltiplicò gli amanti muti nelle strade buie, sotto le volte nere, e l’Eterno Amore, che è di tutti i paesi e di tutti i secoli, riempì l’antica città morta di un’ebbrezza intensa e feconda, creatrice di Vita indistruttibile“.
In seguito alla precoce scomparsa la sua figura e le sue opere furono quasi dimenticate del tutto. Venne riscoperta soltanto negli anni 70 divenendo un esempio per le donne che rivendicavano i loro diritti e icona dell’emancipazione femminile. Oltre a una vasta bibliografia che la riguarda, la sua vita è stata raccontata dal cinema col film ‘Isabelle Eberhardt’ del 1991 del regista australiano Ian Pringle dove è stata interpretata da Mathilda May. Una donna che forse anche la nostra isola dovrebbe scoprire, visto che l’ignora quasi totalmente, come le pagine di quel suo diario, poi riportate integralmente nel libro ‘Lettres et journaliers’, presentato e commentato da Eglal Errera, (Arles, edizioni Actes Sud, 1987) che, seppur brevemente, raccontano Cagliari e la Sardegna in maniera diversa e da un punto di vista per certi versi controcorrente, come l’ autrice stessa.