Nella Cagliari fra la fine del diciannovesimo secolo e il principio di quello ventesimo se ne incontravano a decine. Fuori dal mercato civico del Largo Carlo Felice, in stazione, al porto o ancora, seduti in cerchio o sdraiati nelle piazze, davanti alle porte de “is bascius” e delle botteghe artigiane. Erano “is piccioccus de crobi”, anche se venivano apostrofati nei modi più svariati, una moltitudine di bambini e adolescenti caratterizzati da una spiccata vivacità. Queste turbe di “monelli” attiravano e mandavano in visibilio forestieri e fotografi, suscitando una reazione molto simile alla nostra, quando oggi guardiamo con tenerezza le foto e le cartoline d’epoca che li ritraggono. Tuttavia dietro questa parvenza di umana, giovane, poesia dal sapore retrò si celavano i drammi dell’emarginazione e della povertà più profonda.

Il mercato civico del Largo Carlo Felice, la Canebière cagliaritana, rappresentava perfettamente lo spirito della nuova città bazar che prendeva lentamente forma sotto il lungo sindacato di Ottone Bacaredda. Questo “tempio pagano ricco di ogni ben di Dio” – per dirla con Ranieri Ugo – che “per la sontuosità induceva al raccoglimento e alla meditazione più che a far pensare alle esigenze dello stomaco”, era la meraviglia cittadina, celebrata dai residenti e magnificata dai forestieri che ne rimanevano in qualche modo sedotti. Ogni giorno, con la pioggia, con il solleone o imperversante il furioso maestrale, il mercato brulicava di gente e “is piccioccus de crobi”, immancabilmente, sostavano nei suoi paraggi o fra le colonne di trachite di Serrenti de “su partenoni” – il Partenone – nomignolo che richiamava lo stile dorico con il quale era stata costruita la parte inferiore dello stabile. Il nome “piccioccus de crobi” – letteralmente i ragazzi con la cesta – era un chiaro riferimento alla specifica occupazione di questi ragazzi che attendevano le signore che vi si recavano a fare le compere e per tre o cinque soddus, con l’ausilio delle ceste, portavano loro la spesa a domicilio.

Ma chi erano veramente questi ragazzi? Lo racconta una memoria cittadina ricca di aneddoti, ci sono le fotografie dell’epoca e ci sono innumerevoli fonti storiche, giornalistiche e letterarie, come quella di Paola Lombroso, che appena arrivata in città nella primavera del 1899 così li descrive: “la più carattersitica delle ceste è quella dei picciocchi, enorme, svasata, che tutti i ragazzi hanno e portan piena correndo, oppure vuota si rovescian sul capo, con che paiono enormi funghi ambulanti o quando sono a gruppi di tre o quattro, piccole tribù di giapponesi”. Il ritratto della Lombroso è quello dal sapore esotico, simile a molti altri, ma sarà proprio lei a capire ben presto che quei bambini e quei ragazzi, in prevalenza maschi, non sono altro che i figli reietti di una città che sta cambiando radicalmente e l’emblema di un “fenomeno di disadattamento urbano già diffuso altrove” – come sottolinea Felice Tiragallo – che ha come protagonisti orfani, scappati di casa ed esponenti delle famiglie del più misero sottoproletariato.
Erano quelli che Efisio Costa chiamava “piaga sociale dei monelli” che dopo aver lavorato la mattina come facchini, passavano il resto della giornata ad oziare e, refrattari alla scuola o all’apprendimento di una qualsiasi arte, erano destinati ad arrivare alla soglia dei vent’anni senza saper svolgere alcun mestiere. Erano quelli che giravano per la strada scalzi, sudici, con il viso smunto e gli abiti a brandelli, che vivevano fra le immondizie e il fango, che sembravano non sentire il caldo o il freddo nelle notti passate all’aperto sui gradini delle porte, sulle scalinate delle chiese o sotto il portico di Sant’Antonio. Erano quelli dal viso abbronzato che spesso si cibavano di avanzi raccolti dalle pattumiere delle bettole, quelli che avevano perso precocemente la freschezza dell’infanzia, raccattavano mozziconi per strada e giocavano a primiera o a tre sette; quelli che trascinavano i loro luridi cenci e inseguivano i signori reclamando con disinvoltura un soldo o disegnavano sul marciapiede, col gesso e col carbone raccolto al porto, i protagonisti degli spettacoli delle marionette nei quali riuscivano a intrufolarsi. Erano quelli che arrampicati sul basamento della statua di Carlo Felice o appesi agli alberi, urlavano gaudenti alla vista del cocchio tirato dai buoi, che ogni primo maggio portava il simulacro di Sant’Efisio in processione; quelli che fra loro usavano un linguaggio segreto, non difficile come quello dei ramai di Isili, ma comunque efficace per capirsi rapidamente. Erano quelli che durante i tumulti della miseria del 1906 pareva potessero sbaragliare, da soli, i carabinieri, la truppa e l’intera flotta di sua maestà.

Sono solo alcuni aspetti raccontati dalle cronache su questi discoli, che spesso ricordavano o venivano paragonati ai picari, agli esportilleros spagnoli, agli scugnizzi napoletani, ai gamins francesi, ai pizzinni pizzoni di Sassari o ai mignons del carrer di Alghero, con i quali condividevano lo spirito, la grazia e la poesia del Gavroche reso celebre da Victor Hugo con ‘I Miserabili’.
Nella realtà la situazione di questi ragazzi era decisamente più grave di quello che le cronache potevano raccontare.
Lo studio che Mario Carrara, marito della Lombroso e docente dell’università di Cagliari fra il 1899 e il 1904, compì assieme al dottor Efisio Murgia, evidenziò eloquentemente il dramma di questi ragazzi. Privi di qualsiasi tutela familiare, di un minimo d’istruzione primaria, vivevano randagi, irrequieti e ammalati. Spesso erano dediti ai piccoli furti, per i quali ogni tanto finivano in gabbia, avvezzi alla promiscuità, sfruttati sessualmente e col rischio di finire fra le mani di “bruti e satiri” – così venivano indicati i violentatori e i pedofili all’epoca- o ancora peggio uccisi brutalmente, come capitò al giovane Salvatore Orani, assassinato a colpi di scura durante la rapina ai danni del cassiere della miniera di Monteponi, che aiutava a trasportare il denaro delle paghe mensili dei minatori cha aveva appena prelevato dalla banca.

Le conclusioni dello studio del Carrara, seppur condotte secondo i dettami teorici della scuola positivista, porterà a risultati molto diversi da quelli riconducibili al “delinquente nato” tanto cari al suocero Cesare Lombroso; evidenziando anzi che le cause della condotta errante di questi giovani andavano ricercate nella loro misera condizione sociale e che i rimedi non si dovevano trovare nella punizione esemplare o fra le mura del riformatorio, ma nel fornire loro un concreto aiuto, strappandoli dalla strada, dotandoli di istruzione, cure mediche, alimentazione adeguata, comprensione e affetto. Provvedimenti che qualche anno dopo verranno attuati, non dallo stato – figuriamoci – ma dall’instancabile opera dell’indimenticata suor Giuseppina Nicoli.
Oltre a questo, il lavoro del Carrara e del Murgia, ha il merito di aver dato un nome, un volto e una provenienza a diverse decine di questi ragazzi sfortunati e di averli sottratti all’oblio e alla polvere della storia. Curiosamente, tramite questa indagine, ci sono pervenuti anche i soprannomi di alcuni di loro. Magari oggi, questi nomignoli, ci suonano divertenti, ma talvolta raccontano da soli tutto il disagio e il malessere che affliggeva i titolari. Si chiamavano Brocchiscedda, Bucconi, Cabriolu, Chicchibacchis, Malicenau, Mincacciu, Mussola, Peddicotta, Peddizzoni, Petzeresi, Pezza de Porcu, Pitticcheddu, Quadrittu, Rigoletto, Strattallau, Su Nimigu, Su Para, Pillettu, Peddecani, Bellinu in Para, Piegereu, Mariannina, e nelle foto scattate fuori dal loro territorio usuale appaiono molto meno baldanzosi che nelle cartoline di allora o negli scatti di Max Leopold Wagner.

Paola Lombroso, una volta tornata a Torino, continuerà a occuparsi di infanzia, analfabetismo, problematiche sociali e a scrivere i suoi articoli anche per ‘L’ Unione Sarda’. Fonderà il ‘Corriere dei Piccoli’ e soprattutto dedicherà le sue energie per la diffusione delle biblioteche rurali con l’intento di promuovere la lettura nelle campagne e nella provincia italiana. La sua figura ricorre a più riprese nel romanzo autobiografico di Natalia Ginzburg ‘Lessico famigliare.’
Mario Carrara proseguirà i suoi studi e la sua carriera scientifica, diventando uno dei padri della medicina legale italiana. Sarà uno dei pochissimi docenti universitari che rifiuterà di giurare fedeltà al fascismo.
Is piccioccus spariranno dalle strade cagliaritane negli anni a ridosso della grande guerra. La loro vicenda ispirerà libri, racconti, canzoni, spettacoli teatrali, trasmissioni radiofoniche e la loro figura verrà sempre ricordata nelle memorie della Cagliari che fu.
