“Il militare che senza giustificato motivo ritarda a presentarsi al corpo oltre le 24 ore successive allo spirar della licenza è considerato disertore e punito con la reclusione da 5 a 20 anni, secondo la durata del ritardo, purché non superi ai 20 giorni. Se il ritardo supera i 20 giorni, la pena è dell’ergastolo; se supera i 30 giorni la pena è di morte previa degradazione”. Così recitavano le disposizioni militari per il Regno d’Italia in periodo di guerra mentre infuriava il primo conflitto mondiale. Diversi soldati sardi, dopo aver vissuto l’orrore della trincea e degli assalti e mal tollerato la disciplina militare, scelsero la via della diserzione e non fecero ritorno dalle licenze. Alcuni dei richiamati, in particolar modo quei giovani che avevano preso il transatlantico per cercar fortuna nelle Americhe, non si presentarono neppure. Vi raccontiamo alcuni episodi di una parte della guerra 15/18 che, sormontata anche in sede storiografica dalla retorica sul valore del soldato isolano e dal mito sempre vivo della Brigata Sassari, è stata quasi del tutto trascurata.

Il fenomeno della diserzione in Sardegna
Secondo le stime ufficiali durante la prima guerra mondiale vennero denunciati per renitenza circa 470 mila soldati. 220 mila di questi vennero condannati dai Tribunali Militari a pene detentive, 15 mila all’ergastolo, 4.028 alla pena di morte con 750 sentenze eseguite. Tuttavia queste cifre non tengono conto dei casi di suicidio e di quanti caddero nei conflitti a fuoco con i carabinieri, fenomeno che in Sardegna, specialmente dopo la disfatta di Caporetto, ebbe larga diffusione. Nel 1918 i giornali isolani riportavano quasi quotidianamente le sentenze emesse dai Tribunali Militari di Cagliari, Sassari e La Maddalena nelle quali, fra i più svariati reati, figuravano le condanne per diserzione che spesso avvenivano in contumacia in quanto molti soldati sceglievano di battere la campagna e darsi alla macchia.
Contro questi ragazzi si scatenò in tutto il paese una feroce campagna stampa dove venivano identificati come i traditori, i vigliacchi, gli infami che abbandonavano i fratelli in trincea e scaricavano sui compagni fedeli la loro parte di sacrificio. E sempre nella stampa, attraverso articoli vergati al vetriolo e colmi di disprezzo e retorica bellica, quella di chi comunque la guerra la combatteva dalla sua scrivania, venivano riportati gli episodi di quei soldati che a una palla austroungarica al fronte preferirono prendersene una dai gendarmi di casa loro. L”estate del 1918 è abbastanza eloquente in tal senso. Il 15 agosto in località Li Furreddi, in agro dell’attuale San Teodoro, periva sotto il piombo dei carabinieri il disertore Tommaso Desini da Terranova (Olbia). Il 23 settembre a Telti, durante un’operazione organizzata per la cattura di cinque giovani “che avevano mancato ai doveri verso la Patria” – così scriveva il corrispondente de ‘La Nuova Sardegna’ – uno di essi rimaneva ucciso dal fuoco degli uomini del brigadiere Piano, “già distintosi in precedenza nella repressione del turpe reato” che assicurando gli altri alla giustizia, “aveva liberato tutti da un incubo sinistro”. In febbraio era accaduto un altro fatto di sangue nei pressi di Bultei, dove in uno scontro armato un campiere aveva ucciso a fucilate il disertore Salvatore Crabolu da Nule, raccogliendo il plauso del cronista per tutti quei cittadini che, oltre a combattere il malandrinaggio, toglievano di mezzo anche i senza patria.
I monti del Goceano, della Gallura e delle Barbagie erano i luoghi prescelti dai disertori per la loro latitanza, una vita alla macchia che aggravava di giorni in giorno la loro posizione, in quanto non potendo sempre contare sul supporto dei familiari, la complicità per la renitenza era severamente punita, erano praticamente costretti a rubare e a compiere altri reati per poter sopravvivere. Già nel 1917 i corrispondenti di Meana Sardo de ‘L’Unione Sarda’ lamentavano il fatto che diversi giovani sconosciuti con le calze militari ai piedi transitavano fra il Gennargentu e il Sarcidano e che il popolo attribuiva i numerosi episodi di furto di bestiame di Meana, Atzara, Sorgono e Teti ai disertori che uniti ai “pochi che la guerra aveva lasciato a casa”, “involavano” capi ovini, vaccini ed equini ben oltre i monti di Desulo.
Orune, estate 1918
Uno degli episodi più cruenti accadde nell’agosto del 1918 nelle campagne di Orune. Negli anni precedenti la guerra il paese aveva attraversato momenti difficili con l’instabilità amministrativa causata dall’uccisione del sindaco Pietro Massaiu, il conseguente clamoroso processo nel quale vennero condannati come mandanti alcuni esponenti di importanti famiglie legate ai signori della politica locale e un’insurrezione popolare, con la folla che assediò il municipio per la difesa dei pascoli e dei boschi comuni e lo stato che inviò trecento uomini fra soldati di truppa, carabinieri e bersaglieri per sedare la rivolta.
In quell’estate diversi disertori orunesi si nascondevano nella campagna, quasi a sfatare il mito di quella canzone che li dipingeva come prodi soldati che alla pari dei commilitoni di Bitti e Orgosolo appartenenti ai due reggimenti della Brigata Sassari avevano “pilu in su coro”, ovvero tanto coraggio da essere pronti a sacrificare la loro vita per il re e per la patria. Uno di questi, Francesco Luigi Farina, era proprio un “sassarino” del 151° reggimento, che era stato tra l’altro proposto per una medaglia al valore, come lo era stato il fratello Giuseppe, caduto nella tremenda battaglia di Monte Zebio. I carabinieri del maresciallo Muzzu e il drappello guidato dal brigadiere Cesare Manzato lo cercavano da mesi e con lui cercavano anche Luigi Puggioni, un fante della Brigata Reggio che aveva convinto a disertare dopo un mancato rientro per il quale sarebbe stato poi prosciolto. Il 7 luglio riuscirono a scampare ai gendarmi che durante un appiattamento avevano tratto in arresto la moglie e un fratello del Puggioni e la promessa sposa e la suocera del Farina. Non ebbero la stessa fortuna la mattina del 12 agosto quando sorpresi dai carabinieri, ingaggiarono con loro una feroce sparatoria dove morirono entrambi crivellati di colpi.

“Così si chiude la vita dei due indegni figli della nostra terra – scrisse ferocemente il corrispondente de ‘La Nuova Sardegna’ – che li disprezza e li maledice. I due cadaveri vennero trasportati al cimitero nel cuore della notte, senza una lacrima, senza un rimpianto, privi anche dell’ultima prece che suol raccomandare al perdono di Dio anche i più grandi peccatori. Rimarrà esecrata la memoria specialmente del Farina, primo a disertare dalle patrie bandiere, che trascinò nella china del delitto il Puggioni e gli altri quattro che battono la campagna”. Due di loro, Giovanni Manio e Giovanni, per evitare la sorte dei compagni, si costituirono e poi vennero amnistiati nel 1919, così come i mariani condannati a morte dal tribunale militare di La Maddalena pochi giorni prima della fine del conflitto. Altri non ebbero la stessa fortuna, molti morirono suicidi, anche qualcuno di quelli emigrati, come il giovane anarchico Antioco Carta da Jerzu, che pur di non diventare “strumento dei governi assassini dell’umanità” si suicidò con un colpo di pistola al Bronx Park di New York.
Anche per altri orunesi fioccarono le condanne. Per Lussorio Zidda che non volle saperne di tornare a combattere in Italia e rimase a Rosario, in Argentina; per Antonio Sotgiu, renitente sin dal maggio del 1925 all’inizio delle ostilità, come arrivarono per tanti altri ragazzi sardi come l’anarchico Costantino Zonchello da Sedilo, Giorgio Soddu da Tula, Giovanni Lena da Cagliari e il nuorese Basilio Lai ai quali venne inflitto l’ergastolo. E ancora Antonio Pani, Antonio Pirisi, Giuseppe Marteddu, Salvatore Cossu, Giuseppe Desogus, Giovanni Sassu, Giuseppe Leri, Bernardi Disi, Bonaventura Cossu, Giovanni Pireddu, Giuseppe Pisu e tanti altri ancora nascosti dalla polvere della storia nei fascicoli degli archivi.
Una pagina dimenticata
Si dovrebbe riflettere sulle scelte di questi giovani finiti nel dimenticatoio. I loro nomi non ci sono nei quadri d’onore delle associazioni dei combattenti e nei monumenti ai caduti dei paesi sardi dove ogni 4 novembre si legge ancora il ‘Bollettino della Vittoria’ del generale Armando Diaz e persi in un anacronistico mix di tirate patriottiche e retorica sull’eroismo dei soldati sardi, non si trova il tempo e lo spazio per condannare le guerre di ieri e di oggi. Si dovrebbe riflettere anche sul perché delle loro scelte, non tutte avevano una motivazione pacifistica, antimilitarista o dettata dalla sacrosanta paura di morire; molti, più semplicemente, sentivano la nostalgia di casa e dei loro affetti, come è normale che sia. Suona utopico e forse pure retorico, ne siamo consapevoli, ma se i giovani europei di allora avessero avuto il coraggio di questi ragazzi, oggi, probabilmente, la guerra non esisterebbe più. Vada a loro il merito, come a Giuseppe Dessì per aver scritto ‘Il Disertore’, come a Boris Vian per aver scritto la più bella canzone di sempre in materia, ‘Le Déserteur’, tradotta in tutte le lingue del mondo, sardo compreso, nella bellissima versione degli Askra, se nella storia dell’umanità molti altri giovani hanno disobbedito alla più feroce e stupida legge del branco di sempre, quella della guerra, gridando a tutti “di non partire più e di non obbedire per andare a morire per non importa chi”.
In copertina ‘I Disertori’ – Octav Băncilă 1906
Se questo articolo ti è piaciuto ti invitiamo a condividerlo e, se puoi, a sostenerci con una donazione a questo linki