Tutto ebbe inizio con ‘petaloso’. Era il 25 febbraio 2016 e molti giornali nazionali pubblicarono la notizia che un bambino di Copparo, provincia di Ferrara, aveva ottenuto l’ok dall’Accademia della Crusca, nientemeno, sull’invenzione di un nuovo aggettivo per descrivere i fiori con molti petali. Petaloso, appunto. I social network impazzirono, tra i commenti di chi apprezzava l’intervento della massima autorità linguistica e quelli di chi polemizzava contro imposizioni calate dall’alto. Due fazioni distinte che trovavano fertile terreno di scontro su internet, dove le questioni sulla lingua e le parole, dopo aver lasciato i corridoi dell’accademia, diventavano da quel momento in poi oggetto di dibattito anche molto acceso.
Da allora abbiamo letto e commentato su tutto: i femminili delle professioni, il piuttosto che, i forestierismi, l’abuso di maiuscoli e puntini di sospensione. Uno sterminato campo di battaglia con grammarnazi, nostalgici, esperti di sociologia e linguistica o semplici appassionati pronti a discutere, polemizzare, citare, rilanciare. Ne sa qualcosa Vera Gheno, 45 anni, sociolinguista specializzata in comunicazione digitale, che sull’uso delle parole corrette e le potenzialità del saper parlar bene in ogni contesto ha concentrato impegno, studio ed energie. Per anni, fino al 2019, ha collaborato con l’Accademia della Crusca gestendone anche i social, attualmente segue il profilo Twitter di Zanichelli e insegna italiano scritto all’Università di Firenze e in diversi master in tutto il paese. E’ autrice di diversi articoli divulgativi e scientifici e di diversi libri tra cui “Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello” (con Bruno Mastroianni, Longanesi 2018), “Potere alle parole” (Einaudi 2019), “Prima l’italiano” (Newton Compton 2019) per citare i più recenti.
Petaloso, dicevamo. In realtà la storia non è andata proprio come ce la raccontano: nessuna imposizione di neologismi, semplicemente l’Accademia della Crusca, rispondendo al bambino di Copparo, gli scriveva che “la parola che hai inventato è una parola ben formata e potrebbe essere usata in italiano come sono usate parole formate nello stesso modo”.
Stesso destino, notizia linguistica distorta e destinata a infinite polemiche (alcune decisamente aggressive) sui social network, per ‘presidenta’, ‘uscire il cane’ o ‘salire la spesa’. Ma cosa succede e perché negli ultimi anni è esploso un interesse tanto forte per le parole e la nostra lingua?
Le polemiche ci sono da tempo. Casomai, nell’ultimo decennio è cambiato molto il sistema dei mezzi di comunicazione (di massa) con l’irruzione, prepotente, dei social media nel quadro. Questo ha fatto sì che la discussione linguistica diventasse davvero pubblica, di tutti. Non è che di queste questioni non si parlasse, semplicemente se ne parlava in circoli più ristretti (linguisti, attivisti, ecc.). Adesso (secondo me da petaloso in poi) tutti discutono di lingua. Purtroppo, non sempre ricordando che c’è una differenza tra ‘linguisti ingenui’ e linguisti. Parlare una lingua non vuol dire essere in grado di fare ragionamenti metalinguistici; come diceva un po’ di anni fa Tullio De Mauro, ‘Dobbiamo tenere conto del fatto che in materia di scuola e di lingua molti intellettuali e politici, dato che sono andati a scuola e a scuola ci va la sorellina o la nipotina, e dato che parlano, si sentono autorizzati a sparare panzane a ruota libera. Come se, per il fatto di vivere nel sistema solare, ci sentissimo autorizzati a dare pareri di astrofisica o, causa raffreddore, in materia di batteriologia e virologia. Eppure questo avviene per la scuola e per la lingua’. Insomma, da quando siamo diventati davvero tutti italofoni, è anche normale che ci interessiamo maggiormente a questioni di lingua. Per me che sono linguista, tutto questo è affascinante, ma a volte difficile da gestire. Non tutte le questioni di lingua sono, infatti, facilissime da comprendere per chi non ha una preparazione specifica. Del resto, è così per tutte le materie, no?”
Tra le questioni recenti più spinose e dibattute c’è quella del linguaggio di genere: parole che da sempre sono state usate solo al maschile adesso vengono declinate al femminile. E così sui giornali, in tv, nelle istituzioni e nel dibattito pubblico arrivano ministre, avvocate, sindache, chirurghe: una novità che non a tutti piace. Dal mio punto di vista l’aspetto più rilevante è far comprendere al largo pubblico che si tratta proprio di rispetto delle regole morfologiche dell’italiano: molti di coloro che si lamentano per la bruttezza dei femminili professionali o per la ‘violenza’ che questi rappresenterebbero rispetto alla ‘norma tradizionale’ dovrebbero sapere che i femminili sono esattamente le forme previste da quella norma che loro richiamano. Per il resto, certo, è importante nominare le cose e le persone nel modo più preciso perché quello che viene nominato si vede meglio. In questo momento, c’è evidentemente un elemento di rivendicazione di genere, nella questione, perché secondo molte persone le donne altrimenti rimangono meno visibili, in ambito lavorativo, pur avendo (avuto) accesso a ruoli e professioni dove prima erano una rarità. Insomma, tra realtà e lingua c’è una specie di relazione bidirezionale: la realtà influisce sulla lingua, ma anche la lingua influisce sulla nostra visione della realtà. Le parole che usiamo, checché ne dicano alcuni, non sono indifferenti.

I contesti in cui esprimersi sono rimasti gli stessi per secoli, oggi invece ci troviamo davanti a un contesto nuovo, quello dei social network. Come muoverci e parlare sui social senza fare danni?
I social sono a tutti gli effetti un contesto pubblico, e noi tutti dobbiamo imparare a muoverci e agirvi come ‘piccoli personaggi pubblici’ (come scrivevamo con il filosofo Bruno Mastroianni in un libro di qualche anno fa, ‘Tienilo acceso’). Dirò di più: i social sono un contesto pubblico anche là dove non sembrano, cioè nei gruppi WhatsApp o nei profili ‘privati’. Per come funziona la rete, è del tutto aleatorio considerare privati questi contesti. Faccio un paragone al quale ricorro spesso. I nostri profilo social sono come il balcone di casa nostra. In giro per casa possiamo anche stare nudi, nessuno ci può dire nulla. Quando andiamo in terrazza, qualcuno ci potrebbe denunciare per atti osceni. La differenza tra un profilo privato e uno aperto è all’incirca quella tra un terrazzo che si affaccia su un interno condominiale e uno che dà su una piazza. Magari lì per lì gli spettatori del nostro atto osceno potrebbero differire in numero tra un caso e l’altro, ma la denuncia potrebbe arrivarmi comunque. O qualcuno potrebbe scattarmi una foto, in entrambi i casi, con grave danno alla mia reputazione. E quindi? Muoversi sui social (ma direi piuttosto nell’onlife, secondo la fortunata definizione di Luciano Floridi, cioè in questa realtà complessa in cui ormai online e offline non sono pienamente distinti) richiede cautela e attenzione.
Esprimersi bene richiede cura, pazienza, tempo: come possiamo conciliare la velocità del nostro quotidiano con l’esigenza di parlare bene sempre?
Rendendosi conto che non sono ‘solo parole’, ma che le nostre scelte comunicative hanno conseguenze molto reali e talvolta molto dolorose sulla nostra vita. Propongo a tutti di farsi tre domande, possibilmente in ogni occasione: 1) In che contesto sto comunicando?; 2) Chi sono i miei interlocutori?; 3) Quali sono le mie finalità comunicative?. E dopo, solo dopo, gettarsi nella ‘mischia comunicativa’.