Quando sfiora le sue opere, sente accendersi un sorriso. Giulia Serra lavora nell’arte e con l’arte ormai da tantissimi anni, ma ogni qual volta si ripresenta davanti alle sue opere è come se si accendesse. Sono il frutto dei suoi studi, del suo talento, delle sue competenze, della sua vita. Quando da bambina inizia a disegnare, vede suo padre – pittore autodidatta – dare via libera alla propria creatività. È li che capisce quale sarà il suo percorso.
Sorride e si racconta. Classe 1991, per diversi anni ha girato l’Europa, ha lavorato a Città del Messico e in Gran Bretagna. Poi il ritorno a casa e la specializzazione all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano in Teoria e Pratica della Terapeutica Artistica con una tesi che riguarda la tematica della migrazione. Era il 2018. Da questa soddisfazione personale inizia tutta un’altra storia.
Cos’è la terapeutica artistica?
La terapeutica artistica è un modo innovativo di prendersi cura di sé attraverso l’arte. È nato dalla spinta di due docenti dell’Accademia di Brera, Tiziana Tacconi e Laura Tonani, che nel 2006 hanno istituito il primo corso di laurea specialistica che riguarda questa disciplina. L’azione artistica è un processo in cui si stabilisce un dialogo tra la persona e la materia. Attraverso questo processo la persona ha la possibilità di conoscersi e trarre gratificazione, creando un prodotto di qualità artistica che rifletta il valore della persona che lo ha creato. All’interno di un laboratorio di terapeutica artistica importanti ingredienti sono anche la condivisione e il non giudizio. La nostra formazione spazia dalle lezioni pratiche, in cui si sperimentano vari linguaggi espressivi, alle lezioni teoriche di psichiatria, pedagogia, psicologia e via dicendo.
Da poco è nato il progetto Ikigai: come funziona e che tipo di benefici porta?
Ikigai è il risultato di una collaborazione tra me e Fabiola Fanzecco, psicologa e psicoterapeuta. Si tratta di una serie di incontri nei quali si fa sia psicoterapia che arte terapeutica. Il primo incontro riguardava la ferita come esperienza di dolore dalla quale però possiamo imparare qualcosa, infatti ci siamo ispirate al Kintsugi, l’arte giapponese della riparazione dei vasi. Quest’arte ci insegna ad accettare la ferita addirittura esaltandola, seguendo una forma di pensiero creativo che ci porta ad abbracciare soluzioni nuove, una metafora perfetta della resilienza. Ecco quindi che arte e psicologia si incontrano: in ogni fase del laboratorio c’è stato un dialogo tra le persone con il prezioso supporto della psicologa, dialogo che si è realizzato anche nell’uso della materia e che ha permesso ai partecipanti di vedere come la propria ferita può diventare qualcosa di prezioso e non qualcosa di cui disfarsi. Ogni partecipante ha potuto esplicitare il proprio vissuto emotivo in uno spazio accogliente e sicuro e attraverso il processo artistico è riuscito a metabolizzare meglio ed elaborare il trauma, componendo e traendo gratificazione dal prodotto finale.
Hai firmato anche dei murales: che differenza c’è rispetto al dipingere i quadri?
Dal 2017 faccio parte dell’associazione Skizzo di San Gavino, e ho imparato moltissimo da loro anche a livello umano, per me è come fare parte di una grande famiglia. Ho iniziato quando ho preso parte al’opera ‘Kore’ di Giorgio Casu e da allora ho imparato sia osservando che lavorando come si costruisce un murale. Naturalmente richiede una forza fisica maggiore e bisogna considerare moltissime variabili, come il meteo, le dimensioni del muro e il suo stato, i materiali e le attrezzature. Quando mi è capitato di fare murales ho sempre avuto il supporto attivo dei componenti dell’associazione. È proprio la dinamica del gruppo che mi ha fatto capire quanto è importante il potere della condivisione: se una persona sola può fare una bella opera d’arte, mettere insieme le forze invece significa creare legami, imparare a stare in un gruppo, accettare i propri limiti e infine vederne il risultato che comunque è sempre un successo. In questo senso l’arte di strada è un vero e proprio laboratorio sociale, un potente strumento di educazione oltre che di espressione.
Cosa intendi comunicare con le tue opere? Da cosa prendi spunto?
La mia ricerca artistica è partita quando ho sentito il forte bisogno di esprimere qualcosa che non sapevo comunicare a parole. Soprattutto all’inizio sono stata spinta da qualche moto interiore che avevo bisogno di visualizzare: per farlo ho utilizzato i colori, la forma. Diciamo che quasi sempre nelle mie opere personali parto da un’esperienza che viene da dentro, oppure da qualcosa che ho visto fuori e con la quale ho creato una sorta di collegamento o metafora con il mio sentire. Mi piace moltissimo anche giocare con le parole, suggerire qualcosa e lasciare che lo spettatore sia libero di interpretare, come se potesse trovare delle corrispondenze con il proprio vissuto.
Come e quanto ti ha influenzato il percorso accademico?
Dopo l’accademia ovviamente il mio modo di fare arte è cambiato. Ho sperimentato nuovi linguaggi espressivi e nuovi materiali attraverso il continuo dialogo con i miei compagni, le lezioni frontali, il tirocinio nei luoghi di cura, le visite alle mostre. Un modo di imparare che poi è venuto a mancare per via della pandemia. In particolare l’Accademia è stato un modo per riscoprire le mie radici, le mie opere in quel periodo parlano soprattutto di questo. Oggi sto cercando di esplorare che cosa significhi vivere la società contemporanea all’interno del nostro essere.
Cosa prevede il futuro per te?
In questo periodo sono concentrata sulla preparazione dei prossimi incontri di Ikigai, quindi sto sperimentando e facendo ricerca. Sicuramente poi sarò impegnata anche con l’associazione Skizzo tra progettazione di laboratori e nuovi murales a cui collaborare.
(Foto credit: Giulia Serra)