‘Vertical – Il Romanzo di Gigi Riva”. È questo il titolo che Paolo Piras, giornalista della Rai che per la seconda volta indossa i panni dello scrittore e lo fa nuovamente vestendo i colori rosso blu, ha scelto per la sua “agiografia” sul compianto “Rombo di Tuono”. Il libro, edito dalla 66Thand2nd per la collana ‘Vite Inattese’, è un reportage dove convivono la narrazione epica, il rigore dello storico e la passione del tifoso. L’autore, in compagnia di Celestino Tabasso, lunedì 2 dicembre ha presentato la sua ultima fatica letteraria al teatrino di Sant’Eulalia di Cagliari con un evento del Festival Entula organizzato dall’associazione culturale Liberos. Non siamo voluti mancare all’appuntamento.
È singolare che Paolo Piras apra il suo libro con i versi di un altro Piras, Raimondo, a furor di popolo, se non il più grande, certamente il più apprezzato poeta estemporaneo sardo del Novecento. Raimondo Piras da Villanova Monteleone, il paese che diede i natali a Gian Maria Cadoni difensore dell’Internazionale di Milano che, fresca di fondazione, nella stagione 1909/1910 vinse il suo primo titolo nazionale. Giocò appena tre partite di campionato, segnando anche un goal, e poi sparì dal mondo del foot ball rimanendo tutta via il primo sardo ad aver vinto uno scudetto, l’ultimo è stato Nicolò Barella, sempre con l’Inter. Mistero, storia antieroica, oh we can be Heroes, just for one day.
Di contro, la vita di Luigi Riva da Leggiuno è stata quasi sempre raccontata come un romanzo d’avventura. Ci sono tutti gli elementi essenziali della storia dell’eroe, “parola consunta dall’eccesso di utilizzo” sottolinea Paolo Piras: il viaggio, le prove, gli ostacoli, il coraggio, i compagni d’arme, l’impresa, la vittoria. Quello che spesso manca, nelle tante pagine scritte e nei fiumi di inchiostro versati, è l’umanità, la fragilità, la contraddizione, la possibilità di sbagliare, ma a ben vedere, come ha raccontato l’autore, la grandezza di Riva è stata proprio quella di “accettare un destino di possibile sconfitto” in una terra dove si poteva solo perdere.

“Grandi giocatori esistevano già al mondo, magari più tosti e continui di lui”, scrisse Gianni Brera alla morte di Peppino Meazza, ma nessuno era stato capace di esaltare gli appassionati del Foot Ball come il fòlber, nessuno, almeno sino all’avvento di Gigi Riva. Le storie di questi due campioni, seppur vissute in epoche diverse, hanno tanto in comune. Anche Meazza era orfano del padre Annibale, morto a causa della guerra, la stessa che aveva combattuto Ugo Riva, il padre di Louis e sin dall’infanzia passata nella periferia di Porta Romana sognava una casacca del Milan, come Louis sognava quella dell’Inter di Lorenzi, Nyers e Skoglund, lo svedese “Nacka” per il quale provava una vera e propria venerazione, la stessa che avrebbe riservato al “piccolo Brasile” di matrice mantovana qualche anno dopo nel pieno di quella che Paolo Piras definisce “desertificazione affettiva” causata dalla perdita, in poco tempo, del padre, della madre Edis e della sorella Candida. Sogni che parevano infrangersi, con Peppino Meazza rifiutato dal Milan e Luigino che, seppur convocato dall’Inter, dovrà accontentarsi del Legnano, inciampi che saranno il preludio al successo e alla vittoria.
Anche da campioni affermati le vite del “Balilla” e di “Rombo di Tuono” saranno molto simili e ben oltre il talento, la sfilza di soprannomi e nomignoli e l’amore smisurato di Gianni Brera: la passione per le auto, per la musica, per le carte, le mille sigarette, le copertine dei giornali, il chiacchiericcio mediatico sulle rispettive relazioni sentimentali, le canzoni e la musica a loro dedicate, Gilberto Mazzi e Meme Bianchi per il primo, Serafino Murru e Raffaella Carrà per il secondo e i goal, tantissimi goal, soprattutto in nazionale. La cosa più sorprendente è che dietro entrambi c’è stato l’occhio attento di Fulvio Bernardini; fu lui, all’epoca calciatore dell’Ambrosiana Inter a segnalare un Meazza appena sedicenne al povero Árpád Weisz che sedeva sulla panchina neroazzurra e fu sempre lui, allenatore del Bologna nei primi Sessanta, a notarlo al Flaminio di Roma e a suggerirlo al presidente Dall’Ara, ma questa volta arrivò troppo tardi, Riva era ormai un giocatore del Cagliari.
Cominciava così l’avventura di Gigi Riva che alla pari di Meazza avrebbe regalato tanto all’epica dello sport. Una storia di talento la sua, ma anche di “dedizione, allenamento per affinare il senso della porta, ingegno che splendeva in maniera pura” e ancora ” rabbia, forza d’animo e una carica incredibile ad ogni esultanza per un goal”, goal che diventava ogni volta uno sfogo misto di gioia e furore. Ma non è solo questo. Come tiene a sottolineare Paolo Piras, Riva ha vissuto il suo “trauma” in un “tempo e in un luogo dove il talento veniva riconosciuto”, non potevi bleffare, perché allora forse il Foot Ball era ancora come lo aveva vissuto e descritto Antonio Gramsci, “un modello della società individualistica” dove ” le personalità vi si distinguono gerarchicamente, ma la distinzione avviene non per carriera, ma per capacità specifica; c’è il movimento, la gara, la lotta, ma essi sono regolati da una legge non scritta che si chiama lealtà”.
Le sue gesta ispirarono pagine immortali di giornalismo sportivo italiano, che in un tempo nel quale il calcio non era ancora stato inghiottito dalla televisione e alla radio si poteva seguire soltanto la diretta del secondo tempo, si trasformava in letteratura epico – cavalleresca e alla leggenda dei campioni si affiancava quella dei cronisti che il calcio lo raccontavano con dovizia di particolari. Sono passati alla storia i duelli fra Gianni Brera, Gino Palumbo, Gualtiero Zanetti e Antonio Ghirelli, professionisti che si detestavano e non facevano granché per dissimularlo, tutt’altro, ma che aggiungevano pathos e pepe, epica all’epica, facendo si che questa arrivasse fino a oggi.
Paolo Piras ha fatto tesoro di queste abbondanti libagioni alle quali ha aggiunto la freschezza dell’attualità e come i maestri di un tempo, ai quali sarebbe torto non accostare il compianto Gianni Mura, rende contemporaneamente il suo racconto avvincente e scrupoloso. Da un lato il mito, l’eroe posto alla guida di quella che chiama “l’armata bianca” ma che ha tutti i caratteri di una banda di guerriglieri ribelli: Nenè, Comunardo, Ricciotti, Domingo, quella che trasformò Tarcisio Burnich in Omero. L’hombre vertical che oltre una legge fisica è uno “stato dell’anima che si porta dietro sin dal campetto dell’oratorio di Leggiuno, quello di un ragazzino figlio della guerra che ha imparato a non cadere” preservando la sua dignità come se fosse l’immacolato vestito buono della domenica. Dall’altro, la fragilità del “tallone d’Achille”, i soldi del petrolio, l’avventura Americana e sprazzi di “urologia” – la battuta è di Celestino Tabasso – il gossip, l’Europeo del fatidico 68, Italia – Germania 4 a 3, la finale contro Pelè, il boia del Prater e i goal a San Siro dove non c’è nulla di più epico della gracilità e di quella umanità “col suo marchio speciale, di speciale disperazione, per dirla col suo amico Fabrizio De André. Umanità che trasuda nel rapporto con Arturo Silvestri, il sergente di ferro e con Manlio Scopigno il filosofo, un padre che, aggiunge Paolo Piras, “dava libertà e responsabilità ai figli, ai quali insegnava a gestirsi da soli, comprese le sigarette”.
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In 173 pagine c’è tutto il Riva che conta. Quello che è stato eroe e uomo, che è passato dalla gloria e dalla ribalta sino al precoce ritiro dai campi e alla depressione e che ha scelto, sempre libero e refrattario a qualsiasi imposizione, che fosse quella del collegio o della caserma, di andarsene come voleva, proprio come Peppino Meazza, l’eroe dell’Arena Civica, di Roma, Parigi e Highbury, che scelse di morire in silenzio, lontano dal clamore, raccomandando di dare la notizia soltanto a esequie avvenute. Quel Meazza che lo apprezzava e nel quale rivedeva i suoi compagni Angelo Schiavio e Silvio Piola e che si rallegrò sinceramente quando Gigi Riva il 29 settembre del 1973, in quello stadio San Siro che presto avrebbe preso il suo nome, con un goal alla Svezia, lo superò in cima alla classifica delle reti siglate in nazionale.
Cosa c’è di più epico? Il finale, forse. Il finale di una narrazione che Paolo Piras ha reso teatrale, dove “tutto è finto ma niente è falso” per dirla con Gigi Proietti, o meglio, come annotta a fine libro, dove “solo il dolore è vero”. Per il resto “meglio morire da eroi invitti e poi lasciarsi cadere, morire un giorno qualsiasi, ancora immersi fino al tallone nella truffa dell’immortalità”.