Tre spedizioni. Tre anni nel deserto ghiacciato dell’Antartide. A sperimentare l’atmosfera, il cielo, la terra e la biologia dell’uomo. Questi i temi al centro degli studi del PNRA (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide), dell’ENEA (Agenzia per le nuove tecnologie l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), e del CNR (Consiglio Nazionale delle ricerche), in collaborazione con l’IPEV francese (Institut Polaire Paul-Emile Victor) affrontati dai diversi professionisti europei che si sono susseguiti negli anni, in delle mission quasi impossible. Presente, anche quest’anno, l’ingegnere di Gavoi Marco Buttu, che insieme ad altri ricercatori, tra cui Mario Lecca di Austis, è tornato ad osservare le stelle in quel Polo Sud del mondo così ostile e sconosciuto, nella base permanente franco-italiana Concordia, situata sul plateau antartico nel sito denominato Dome C, a circa 4000 metri di altitudine e a -80 gradi centigradi, in un ambiente di aria secca carente di ossigeno.
Al suo ritorno, dopo un breve passaggio nella sua Gavoi, lo abbiamo raggiunto telefonicamente mentre era in vacanza in Tanzania, per raccontarci dell’ultima spedizione, delle sue chiavi del ‘successo’ come ricercatore e scrittore e dei suoi piani per il presente.
Eccoci qua Marco, a distanza di anni. Ci siamo incontrati per la prima volta a novembre 2017, in prossimità della tua partenza per la prima spedizione in Antartide. Cosa è cambiato da allora?
E’ cambiato tantissimo. Durante la prima spedizione ho scritto un libro e dopo quell’esperienza mi si è aperto un mondo che mi ha consentito di farne altre due. Andare in Antartide nel 2017, oltre ad avermi aperto le porte per questa esperienza lavorativa e per i viaggi che ho fatto in seguito, mi ha consentito anche di fare una cosa che mi piace: scrivere. Sto difatti lavorando ad una serie di libri: uno è un aggiornamento e integrazione di ‘Marte Bianco’, il libro che avevo già scritto e che proseguirò nei prossimi mesi quando sarò in India. C’è anche un saggio, di cui non posso svelare il titolo, per il quale ho già firmato un contratto con la Mondadori, che è incentrato, per così dire, sulle mie pratiche del ‘vivere sereni’, con diversi aneddoti nei quali le pratiche sono inserite. E poi c’è il libro più importante al quale sto lavorando da circa cinque anni, un romanzo, che non è ancora concluso e che probabilmente concluderò dopo il saggio della Mondadori.
Marco, tu sei un uomo di scienza ma spesso hai dimostrato di dare molta importanza agli aspetti più spirituali e intimisti di te. Il tuo logo ti rappresenta con le vesti della tuta che utilizzi in Antartide ma in posizione yogica. In quale delle due dimensioni, scientifica e spirituale, ti ritrovi maggiormente?
In entrambe, non c’è una che prevale sull’altra, perché in fin dei conti l’obiettivo è lo stesso. Nel senso che tramite le mie pratiche legate allo yoga alla fine si può intuire il senso della realtà che c’è oltre la realtà, al di là dei sensi. Mentre attraverso la scienza si trovano dei modi per capire i lati tecnici di questa realtà, come funzionano le cose, ma non riuscirai mai a capire cosa c’è dietro la realtà e perché siamo qua, in quanto alla fine la scienza è solo un tecnicismo. Ad esempio, trovando un paragone, è come conoscere quali sono le regole di una partita di scacchi senza però conoscere le emozioni dei due giocatori. Una è la tecnica, l’altra invece è una cosa che non ha niente a che vedere col tecnicismo di quella partita.
Secondo te qual è la chiave che ti ha portato ad avere più ‘successo’? Sarà questo tuo modo di raccontare la scienza dandole una connotazione più spirituale?
Possono essere diverse cose. Una di queste è il fatto che magari i miei colleghi vedono le cose e le spiegano con troppi tecnicismi senza questo lato di cui hai parlato tu, chiamiamolo spiritualità.
Un’altra cosa potrebbe essere il fatto che non mi ritengo un genio, quindi impiego molto tempo per capire le cose, perché sono una persona comune e quindi, sforzandomi di comprendere le cose nel dettaglio, credo di riuscire a spiegare gli aspetti più tecnici in termini molto semplici.
Per questo tipo di spedizioni occorre anche essere pronti fisicamente e prepararsi psicologicamente. Quindi si può dire che dopo ben tre spedizioni tu possa essere pronto per partire in altre dimensioni, per missioni interplanetarie, magari su Marte?
Sì, però non sarà il mio caso perché ormai sono troppo avanti con l’età. Per fare l’astronauta devi essere reclutato entro i trentacinque anni, solitamente. Le mie due colleghe che sono state selezionate dall’Agenzia Spaziale Europea avevano meno di trentatrè anni. Io sono troppo avanti e quindi non ambisco a questo, mi accontento di stare qua e vedere la Terra. Ho ancora troppe cose da vedere, praticamente tutta la Terra da esplorare.
Altrimenti, fossi stato in età, lo avresti fatto?
Sì, certo.
A questo proposito, qual è stata la spedizione più dura in questi anni? Quali differenti criticità hai potuto riscontrare sia a livello fisico che psicologico?
A livello fisico non ho mai riscontrato difficoltà, o almeno son le stesse ma non le reputo tali. Le difficoltà maggiori possono essere quelle delle temperature esterne quando stai lavorando, che comunque sono difficoltà temporanee perché durante l’inverno esci fuori per un’ora o due al limite, ci sono temperature bassissime e sono abituato a sopportarle. Le difficoltà maggiori sono sempre nei rapporti interpersonali e questi non puoi mai prevederli. Si possono presentare all’inizio della spedizione al primo mese di isolamento, oppure quasi alla fine. Sono questi gli aspetti più difficili da affrontare e gestire per chiunque e che mettono in gioco la spedizione, anche il ricordo stesso. La spedizione può essere bellissima ma poi potrebbero crearsi dei conflitti nell’ultimo mese e dunque nella mente essere cancellata, rimangono solo brutti ricordi e sensazioni che magari portano poi una persona a non fare altre spedizioni. Ma se la affronti al meglio puoi decidere di farne anche altre. Solitamente le persone che hanno passato buone esperienze e che hanno gestito bene questi conflitti si sono candidate anche per farne delle successive.
Marco, in genere, tu appari sempre molto allegro, anche se il contesto sembrerebbe essere critico, date le condizioni, però sei anche molto stimolante e coinvolgente nelle comunicazioni social. Hai avuto dei momenti di sconforto e se sì per quali ragioni?
No, momenti di sconforto no, non ne ho mai avuti perché so come gestire le situazioni. Questi tra l’altro sono gli argomenti che tratto nel saggio della Mondadori. Ho acquisito le mie strategie che mi consentono di non farmi prendere dallo sconforto. So benissimo che la vita è fatta di alti e bassi in qualsiasi momento, non esiste una vita che è piatta e sempre felice. Per cui so che appena c’è un momento basso devo solo aspettare perché poi arriva un momento più alto. Semplicemente lo vivo, anche attraverso le mie pratiche, sapendo che è un momento della vita e cerco di aspettare nel modo più sereno possibile, finché non ne arriva uno migliore.
Dopo le spedizioni dai molto spazio alla dimensione del viaggio che ti serve probabilmente, come hai già accennato, a recuperare, spesso viaggiando anche in solitaria. Quanto reputi sia importante, anche per le persone che fanno dei lavori più ordinari, mantenere quella dimensione personale dove ciascuno coltiva le proprie passioni ai fini anche del mantenimento del proprio benessere psicofisico?
E’ importante per me ma non è qualcosa che posso generalizzare a tutte le persone che fanno questo tipo di spedizioni. Anzi la maggior parte di loro dopo fanno un piccolo viaggio e poi tornano subito a casa nei loro paesi di origine.
Per me è diverso perché innanzitutto ho una seconda casa che è l’India, ci passo diversi mesi all’anno insieme al mio insegnante. Dopo questi viaggi iniziali, prima in Nuova Zelanda e adesso in Tanzania per tre settimane con mia moglie, andrò in India, che non è un viaggio, ci vado per fare la mia pratica di yoga col mio insegnante e questo mi aiuta ad incentrarmi completamente, ad aumentare tantissimo il mio livello di concentrazione. E’ anche un momento in cui mi preparo a scrivere il libro, quindi mi serve sotto tantissimi aspetti.
Quando sono In India non viaggio , sto nello stesso posto, faccio la mia pratica yoga e lavoro al libro. Ogni giorno sempre con la stessa routine. Non ricerco svaghi.
A proposito dell’essere concentrati, isolati e lontani dal mondo quanto ti ha aiutato comunicare attraverso i video e i social nell’affrontare questa condizione di isolamento e questa lontananza dalla società?
Sì, quest’anno tantissimo perché c’era Internet. Rispetto alle altre spedizioni per me questa è stata la più semplice perché ogni giorno potevo chiamare mia moglie, potevo vederla addirittura in videochiamata, mentre nella prima spedizione, ad esempio, ci siamo visti solamente quattro volte in un anno. Non potevo fare nemmeno degli audio, quindi ci sentivamo la domenica col telefono satellitare ma era una connessione con dieci secondi di ritardo, bisognava dire passo e chiudo ogni volta che qualcuno aveva chiuso la frase. Mentre quest’ultima spedizione, avendo Internet, è stata semplicissima e mi ha consentito di avere questo contatto con le persone che è stato straordinario, mi sono sentito vicino a tutto il resto del mondo. Un’altra cosa che mi consente di passare bene la spedizione è scrivere. Quando scrivo mi faccio trasportare e non sto più a Concordia. Quindi se riesco a scrivere per tre ore in un giorno in quelle tre ore sono stato al mare magari, negli ambienti che descrivo o con le persone che descrivo. E anche questo probabilmente mi ha aiutato a far passare in fretta la spedizione. Ero talmente focalizzato sullo scrivere che quasi negli ultimi mesi non volevo terminasse perché avevo ancora da scrivere.
Quali saranno i tuoi piani futuri? In parte li hai detti, scrivere dei libri. Ma ci sono altre cose, ecco, che finora non hai fatto e che ti piacerebbe fare o approfondire?
In genere non faccio programmi a lungo termine. Semplicemente vivo nel presente e cerco di stare nel presente. Le uniche cose alle quali mi sto proiettando adesso sono i libri. Penso che ognuno abbia il suo scopo nella vita: il mio in fin dei conti è fare qualcosa di utile per gli altri, no? Non per me stesso. Quindi ognuno deve cercare a suo modo di fare questo, cioè quello che in giapponese si chiama ‘ikigai’, qualcosa che ti appassiona ma che ti consente di far vivere bene anche gli altri. Forse il mio mezzo è proprio scrivere perché la scrittura mi piace, anzitutto, e poi mi consente di trasmettere dei messaggi che secondo me sono utili agli altri. Vivo ogni giorno nel presente senza particolari ambizioni personali, cercando di tenere a mente questo.
Foto Credits Marco Buttu
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