Torino 4 maggio 1949. Sono circa le 21 quando le autolettighe che hanno fatto la spola fra Superga e l’obitorio terminano il loro mesto peregrinare. Fuori dalla camera mortuaria una folla ammutolita e affranta dal dolore attende ancora incredula. La squadra del Torino, quella degli invincibili di capitan Mazzola, Bacigalupo, Menti, Rigamonti e Gabetto non esiste più, sono morti tutti nel tragico schianto dell’aereo che li riportava a casa dalla trasferta portoghese di Lisbona dove aveva giocato in amichevole contro il Benfica. Il pietoso compito del riconoscimento delle vittime spetta a Vittorio Pozzo, il commissario della nazionale con la quale gli azzurri avevano vinto due mondiali e un’olimpiade. Fra i corpi martoriati, bruciati, resi quasi irriconoscibili c’è anche quello di Ernő Egri Erbstein, il direttore tecnico della squadra che dopo aver rivoluzionato il calcio italiano era stato emarginato dalle leggi razziali del 1938 e in seguito perseguitato dai nazisti e scampato miracolosamente alla camera a gas. Il cammino di Ernő si era incrociato anche con quello della città di Cagliari che lo vide, fra il 1930 e il 1932, sedere sulla panchina della sua squadra calcistica e guidare la società rosso blu alla sua prima storica promozione in serie cadetta. Il capoluogo sardo, salvo poche iniziative, sembra far fatica a ricordare degnamente la figura umana e sportiva di quel gentiluomo venuto dall’est per insegnare ai sardi le nozioni del football rubate agli inglesi e le raffinate e innovative tecniche che resero celebre la scuola calcistica danubiana.
L’Abatjour che soffondeva luci rosse e blu

Nell’estate del 1930 la società borghese cagliaritana, per sfuggire alla noia e alla calura, si dava appuntamento alla biancoazzurra rotonda del Lido dove dame e cavalieri, fra un ballo e un gelato, cercavano brio e frescura in compagnia dell’impeccabile orchestrina che ne aveva ben oltre la mezzanotte. L’alternativa era il teatro all’aperto Eden Park dove andavano in scena prosa, commedie, lirica, operette e concerti di ogni genere. Grandi nomi calcarono il suo palco in quell’anno, il tenore tempiese Bernardo De Muro ad esempio, che stregò la platea la notte del 24 luglio. Tuttavia, la settimana prima, l’attenzione era stata riservata alla Compagnia della canzonettista Anna Fougez, all’epoca ancora acclamata diva che godeva di vasta popolarità e del marito, il ballerino e cantante René Thano che si esibì per diverse serate riscuotendo un grandissimo successo. Una di queste fu molto particolare, una di quelle che sarebbero passate alla storia, quella del 20 luglio dedicata a una raccolta fondi in favore della società del Club Sportivo cittadino, il Cagliari Calcio, che in quel periodo era contraddistinto da due caratteristiche: la grande ambizione di formare una squadra capace di fare il salto di qualità e, di contro, le pessime condizioni delle sue casse che non consentivano tale aspirazione. Furono il podestà Enrico Endrich e il neo presidente Enzo Comi, subentrato a Carlo Costa Marras, a convincere la diva; i prezzi furono triplicati e grazie a una martellante campagna pubblicitaria su muri, tram e giornali, la serata fu trionfale, un clamoroso successo che avrebbe cambiato le sorti della società rosso blu. Leggenda vuole che quella sera la cantante abbia modificato i versi di uno dei suoi più acclamati successi, ‘L’Abatjour’, per rendere onore ai colori sociali del Cagliari.
L’uomo venuto dall’est
Enzo Comi era stato molto diretto, Cagliari voleva uno squadrone forte per davvero, “di quelli che non prendono nespole” scriveva ‘L’Unione Sarda’, ma i denari erano pochi e i giocatori si facevano pagare in barche di biglietti da mille. Servivano nuovi acquisti, nuovi cannonieri, nuova gente insomma e magari anche un nuovo allenatore, tipo quello suggerito dall’uscente Marras, ungherese come Winkler ma decisamente più talentuoso, tale Ernesto Erbstein che aveva visto far giocare divinamente la Nocerina l’anno prima. Serviva tutto ma gli appassionati cagliaritani sapevano soltanto dare consigli e dispensare critiche senza tuttavia mettere mano al portafoglio, almeno fino a quando a chiederlo non sarebbe stata l’affascinante e bellissima miss Fougez.
Ernő Erbstein, disoccupato in seguito alle scelte societarie della squadra campana, accolse con entusiasmo e gratitudine l’invito della compagine cagliaritana e si trasferì in città assieme alla moglie Jolàn Hunterer e alla figlia Susanna con le quali andò ad abitare in via Roma. Fu questo signore, impeccabile nell’abito e nella parola, dai modi cortesi e coi capelli perennemente imbrillantati, a scegliere i nuovi giocatori da aggiungere al nucleo della precedente gestione dove spiccavano i veterani Michele Puligheddu, un difensore dal tiro micidiale e i fratelli Aldo e Tonino Fradelloni, veri beniamini della tifoseria. Arrivarono così il portiere Angelo Bedini, ex Pisa e riserva di lusso juventina del numero uno della nazionale Combi; dal Pescara e dall’Arezzo vennero acquistati i centrocampisti Attilio Di Clemente e Dante Chiantini, dal Macerata dove era stato parcheggiato dopo i fasti laziali, l’attaccante Dante Filippi. Completavano il quadro due vecchie conoscenze di Erbstein, il fiumano Luigi Ossoinach che non aveva avuto fortuna e spazio nella Roma in prima divisione e la mezzala di fantasia Leopoldo Francovig un friulano già alle dipendenze del mister nel Bari.

Le novità societarie e nell’organico crearono grandi aspettative verso i “rosso e bleu”, allora si scriveva così, che non nascondono l’ambizione per il grande salto verso la serie cadetta. Erbstein rivoluzionò radicalmente l’obsoleta concezione di football che aveva il Cagliari calcio e si confermò un grande innovatore degli aspetti tecnico tattici ma anche nell’ambito atletico e psicologico. Il sistema d gioco che aveva potuto sperimentare a Bari e Nocera si concretizzò in Sardegna con una compagine di calciatori che non tardò ad apprendere e far sue le finezze del calcio magiaro e i preziosi insegnamenti di un allenatore, puntiglioso al limite del maniacale, che non lasciava nulla all’improvvisazione, in campo e fuori dal campo, dall’attenzione alla condizione atletica e all’alimentazione dei suoi ragazzi fino ad escogitare un ritiro a Villacidro per tenerli lontani dal pressante clima cittadino prima di un incontro fondamentale, insegnamento che decenni dopo Nereo Rocco e Helenio Herrera avrebbero fatto loro sulle panchine di Milan e Inter che negli anni sessanta vinsero tutto in Europa e nel mondo.
Verso la gloria
I frutti si palesarono da subito. Inserita in un dei gironi sud, quello F, composto prevalentemente da squadre umbre, marchigiane e pugliesi il Cagliari vinse le prime tre gare segnando ben dieci goal, sette dei quali al malcapitato Brindisi. I successivi tre pareggi consecutivi e la sconfitta con il Taranto, sua diretta rivale per la promozione, all’ottava giornata non ridimensionarono i sogni di gloria e da allora, tolti due pari con Macerata e Ascoli e una sconfitta indolore a Trani, furono soltanto vittorie, ben undici, con un complessivo di 50 reti segnate e 16 subite. Il secondo migliore attacco e la miglior difesa del campionato. L’incontro più importante e atteso fu quello disputato nel campo di viale Trieste ( lo stesso di via Pola ma con ingresso diverso) l’8 marzo del 1931, quando un senso d’ansia spasmodica contagiò gran parte di tifosi isolani facendo letteralmente sbiadire il ricordo di quello col Palermo nella stagione precedente. Quel giorno arrivò a Cagliari la corazzata Taranto che alla pari dei rosso blu puntava alla bramata promozione. Fu allora che mister Erbstein decise di portare i suoi ragazzi in ritiro alle falde del monte Linas per sottrarli al clima cittadino, che, come narrano le cronache sportive della stampa unionista, aspettava trepidantemente “la più ardente battaglia”.
Quel giorno giunsero tifosi da mezza Sardegna. Tre autobus della Satas portarono, – udite udite! – i tifosi sassaresi con il cronista de L’Unione Sarda che commentava entusiasta: “I tempi delle rivalità, delle piccole bizze campanilistiche a base di Torres e di Cagliari sono tramontate per sempre. Perché i dissensi dileguassero e i malintesi si disperdessero, è stato sufficiente che le due società varcassero il mare, portassero nella penisola i gagliardetti e le bandiere della Sardegna”. Il resto accorse con autobus e vetture da Sorgono, Nuoro, Arbus e Villacidro e tanti altri coi treni da Macomer, Oristano e Iglesias, in un tripudio di tifosi entusiasti che non si era mai visto prima.
Per dovere di ospitalità il Cagliari quel giorno indossò la maglia azzurra in quanto anche il Taranto aveva i colori sociali rosso e blu. Sul campo però non ci fu storia. L’undici di Erbstein fu protagonista di una gara pressoché perfetta, durante la quale, spinta da una folla immensa e delirante surclassò gli avversari con un rotondo due a zero ottenuto con i goal di Francovig allo scadere del primo tempo e il raddoppio di Filippi al 6′ della ripresa. La narrazione dell’impresa fu epica, il Cagliari superò in classifica il Taranto e rimase in vetta sino all’ultima giornata ma per la promozione mancava ancora un passo fondamentale, quello del doppio spareggio con la Salernitana. All’andata finì in parità per uno a uno. Al ritorno si replicò il trepidante clima della partita col Taranto, con “ultras” ancora più infervorati, bandiere, cartelli, cori e canti al grido di “Il pallone che in Sardegna noi giochiamo” che, ci si augurava, raggiungesse a Nora il Santo Guerriero che proprio il pomeriggio seguente avrebbe fatto ritorno in città. Altra bolgia, altra drammatica epicità. Dopo l’iniziale spavento e la sensazione di sconforto provocata dal goal di Miconi al 24° del primo tempo che – ricordano le cronache- tuonò come “l’improvviso schianto della folgore”, fu il tripudio, fu una sarabanda frenetica alla quale, in seguito alle reti di Puligheddu che con un bolide su punizione da trenta metri agguantò il pareggio e Filippi che portò il Cagliari in vantaggio, si abbandonarono i tifosi locali che perdendo ogni freno inibitorio si lanciarono nella più pazza delle gioie. La città rimase in festa per una settimana.

Un destino segnato
Ernő Erbstein restò ancora per un anno sulla panchina del Cagliari che disputò, nonostante i problemi finanziari e societari, un dignitoso campionato nella serie cadetta. Tuttavia, considerando le criticità economiche, non poteva più permettersi un allenatore di quel calibro e tantomeno di portare avanti una squadra di buon livello che forse, con qualche innesto adeguato, avrebbe potuto puntare anche alla Prima divisione; fu la fine dell’idillio e il principio della decadenza del Cagliari che presto avrebbe dichiarato bancarotta e sarebbe stata costretta a ripartire praticamente da zero.
Per l’allenatore magiaro dopo le nuove esperienze con Bari e Lucchese sarebbero arrivati gli anni difficili. In seguito alle leggi razziali del 1938, in quanto ebreo, sarebbe stato allontanato da quel Torino che cominciava a diventare grande. La stessa sorte sarebbe toccata al connazionale Árpád Weisz che aveva guidato le imprese dell’Ambrosiana Inter di Peppino Meazza e del Bologna di Renato Dall’Ara. Furono anni turbolenti di fughe, peregrinazioni, catture e lavori forzati ma alla fine ebbe modo di sfuggire al campo di concentramento e alla camera a gas dei nazisti, cosa che non sarebbe riuscita al suo stimato collega che morì ad Auschwitz nel gennaio del 1944. Tuttavia l’appuntamento con il “fato” era solo rimandato. Nel 1946 il presidente del Torino degli invincibili Ferruccio Novo, che già lo aveva protetto nelle ultime convulse fasi della guerra, lo rivolle in squadra prima in qualità di consigliere e successivamente come direttore tecnico. Ai colori granata si lego indissolubilmente il suo destino, nella gloria di quella squadra che giocava un calcio formidabile – secondo il giornalista Francesco Facchini fu lui il vero “deus ex machina dei trionfi dei granata” – e fra i rottami di quel trimotore FIAT che in quel piovoso pomeriggio del 4 maggio 1949 si schiantò sotto la basilica di Superga.
La tragedia scosse enormemente tutta l’Italia che in quel Toro e in Fausto Coppi vedeva in qualche modo i segnali della rinascita e scosse nel profondo anche un sarto di Leggiuno che per far vivere dignitosamente la sua famiglia era andato a lavorare in fabbrica e che amava quella squadra di fenomeni e ne conservava gelosamente immagini e ritagli di giornali, come faceva per il campionissimo di Novi Ligure, con passione, la stessa che cercava di trasmettere all’unico maschietto di casa, il più piccolo. Quel signore si chiamava Ugo Riva ed era il padre di Luigino che qualche lustro dopo per i tifosi sardi sarebbe diventato semplicemente Gigi Riva e avrebbe scritto la più bella pagina sportiva della storia cagliaritana partendo proprio dalla serie B, il campionato cadetto che i rosso blu avevano battezzato trentacinque anni prima sotto la guida di quel affabile ungherese che aveva portato in terra sarda la sua rivoluzionaria idea di football. In virtù di questo, ben altra memoria sarebbe spettata ad Ernő Erbstein, sia a livello nazionale che cittadino e societario, ma non è ancora tardi per porvi rimedio.
La storia del grande Cagliari di Ernő Erbstein era cominciata su un palco scenico grazie alla disponibilità di una grande artista, destino volle che anche sua figlia Susanna sarebbe diventata un’apprezzata ballerina e una coreografa di fama internazionale.
Per chi volesse approfondire e conoscere meglio la storia del tecnico ungherese consigliamo ‘Erno Egri Erbstein. L’allenatore del grande Torino’ di Dominic Bliss, Cairo editore 2019.