Ci risiamo, ecco una nuova ‘New Sensation’ che arriva al punto di non ritorno, dopo Idles e Viagra Boys (sempre qua e qua su Nemesis Magazine), ora tocca al terzo elemento del triumvirato “post punk” (etichetta “che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo”, cit.) che prende il nome di Fontaines DC.
Ora, cosa sia il DC non ho mai tenuto a saperlo, penso anche che ogni persona abbia il suo diritto a fantasticarci sopra, in modo da poter tenermi questo diritto anche per me, svelerò solo alla fine cosa mi lascia intendere, ma intanto, iniziamo.
Ecco qua, ancora una volta abbiamo un album che deve incominciare con una nenia che per carità, scimmiottare ‘Black Celebration’ va bene a dodici anni ed intonare un “Into the Darkness Again” fa sempre capo a quell’età ma poi, anche basta, soprattutto visto questo vizio anche molto Idles di “parlare parlare parlare”. Sorvoliamo, andiamo oltre, la seconda traccia anche qua si fa attendere per poi esplodere come una ‘TracciaKasabianQualsiasiDel2006Circa’ ed ancora, siamo fuori tempo, si esatto un debito scaduto. Sono un po’ sconcertato perché alla fine il tutto non sembra male (GAC inizio a pensare) però, insomma, ho preso questo impegno e la redazione sa che lo porterò avanti, costi quel costi, anche ritardare l’ascolto del nuovo dei Fleshgod Apocalypse.
Andiamo ancora oltre, ‘Here Is The Thing’ è un’altra bella inutile canzone che riesce ad entrare bene in testa mentre poi eccole qua le due ballad ‘Desire’ e ‘In The Modern World’ per traforare i cuori della genZ (spero che chi sia leggermente precedente a questa generazione abbia già le proprie icone romantiche, a base Coldplay per capirci).
Il circo delle citazioni continua con il bellissimo riff con cui inizia ‘Bug’ che, anche qua, più di venti anni fa ci avevano già pensato ad Athens, Georgia (non devo nemmeno svelare di chi stia parlando) e, avendo ormai intuito che questo più che un album sembra una “copia di mille riassunti”, ho immediatamente avuto paura leggendo il titolo della successiva, smentito immediatamente dal patchwork Cure cantati da Corgan anche qui evidentemente dodicenne con tasto riverbero dimenticato acceso o forse in pura salsa MBV.
Onestamente non ne ho più e guardo la tracklist per sincerarmi che questa tragedia capitanata da Grian Chatten stia per finire, logicamente per quanto possa ancora il destino essere beffardo mi tocca di sentire scimmiottati anche i Pixies in ‘Death Kink’ ed io incomincio sia ad arrabbiarmi un po’ che a pensare che i Master in paraculismo siano sempre i più profittevoli e che in questo caso il guru sia il produttore James Ford (già Blur, Depeche Mode, Arctic Monkeys e quindi qua il Premio GAC trova tutta la sua soluzione).
Ricapitoliamo: un bell’album se si è nati dodici anni fa, suonato bene, prodotto meglio e totalmente inutile.
E DC? Ah si, Democrazia Cristiana, of course.
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