Carnevale senza maschera? Inconcepibile, soprattutto per la pacifica Cagliari di metà Ottocento. Eppure l’intendente di giustizia cittadino, applicando un provvedimento esteso a tutto il Regno di Sardegna dopo il burrascoso 1848, aveva vietato anche ai cagliaritani di camuffare il loro viso. Un decreto tollerato per appena un anno ma che nel pomeriggio del 15 di febbraio 1852 portò i cittadini a sfidare le autorità e a rivendicare il loro diritto di mascherarsi. Intervennero i carabinieri e i cavalleggeri e ne nacque un violento scontro con studenti e popolani, dei quali presero le difese alcuni membri della Guardia Nazionale. Il tumulto, terminato con qualche ferito, viene storicamente considerato alla stregua di una banale baruffa, ma in realtà da un lato celava un diffuso senso di malessere di ben più ampia portata e dall’altro, fu il pretesto reazionario per mettere il bavaglio ai bollenti spiriti dei democratici sardi e proclamare lo stato d’assedio.
Erano passati cinquant’anni da quando i cagliaritani avevano organizzato una grandiosa mascherata con carri allegorici e pariglie in onore dei sovrani Carlo Emanuele di Savoia e Maria Clotilde di Borbone che all’epoca risiedevano in città in fuga dall’invasione napoleonica. Ma i tempi erano ormai cambiati: nel 1847 c’era stata la fusione perfetta che con gli Stati di terra ferma che tuttavia aveva deluso le aspettative dei sardi; nel 1848 il vento della “primavera dei popoli” aveva messo in subbuglio l’Europa e la sua eco ero giunta anche in Sardegna dove si facevano strada le idee democratiche e repubblicane. La palpabile insoddisfazione politico economica coinvolgeva il popolo, la piccola borghesia, gli studenti e alcuni professionisti, medici e avvocati di pensiero progressista che manifestavano il loro malcontento dalle colonne de ‘La Gazzetta popolare’; ma anche i nostalgici dell’epoca prefusionista. All’isola erano state estese tutte le leggi del regno sabaudo e nel 1851 ne vennero applicate altre in materia di ordine pubblico, atte a prevenire ogni barlume sovversivo, fra le quali spiccava quella del divieto di mascherarsi durante le celebrazioni del carnevale.

Queste leggi liberticide, che portavano con loro il vento della reazione, venivano avallate da quella che allora era chiamata la “camarilla“, una consorteria d’interessi di stampo conservatore e clientelare che appoggiava la destra governativa. Sono gli esponenti di questa camarilla a convincere il governo d’Azeglio che a Cagliari, Sassari e nel resto dell’isola vi sia una diffusa rete di cospiratori e congiurati, neo giacobini sospinti dal popolo e pronti a tutto al fine di scuotere la Sardegna dal giogo piemontese. Il compito di reprimere ogni sentimento rivoluzionario viene affidato ad Alberto Lamarmora che inaugura nell’isola la lunga stagione dello stato d’assedio e dei provvedimenti di polizia.
Tuttavia, nel 1852, mentre la cittadinanza si prepara al carnevale e al Teatro Civico si fanno le prove per portare in scena l’opera buffa ‘Le avventure del poeta Stracciapane’ interpretata dal tenore Domenico Barocci, si respira un’aria di apparente tranquillità. Alcuni popolani e studenti sono risoluti a infrangere il divieto di indossare la maschera e già dal mattino del 15 febbraio si stanno organizzando per la sfilata che partendo dai quartieri bassi della città nel pomeriggio, si recherà a Castello. Guardie e carabinieri lasciano fare, fino a quando nel pomeriggio il corteo mascherato si presenta alla Porta dei Leoni seguito dal popolo in festa e trova l’accesso sbarrato da cinque gendarmi che intimano a tutti di levarsi la maschera. L’ordine non viene eseguito; saltano fuori sciabole e pistole, che non fanno altro che accendere l’animo dei festanti che a suon di pietre e pugni ingaggiano una colluttazione con la benemerita.
Sembra quasi un’imboscata. Ad un tratto dalle strade limitrofe cominciano ad arrivare decine di guardie e cavalleggeri che vengono accolti da una fitta sassaiola dalla gente assiepata sul bastione di Santa Caterina. Sopraggiungono anche i militi della Guardia Nazionale, una milizia volontaria formata da cittadini, che cerca di porre fine alla baraonda, frapponendosi fra le due fazioni in lotta. Succede però che durante il parapiglia i carabinieri si scontrano con alcune di queste guardie e cercano di disarmarle. Questi per tutta risposta reagiscono schierandosi con la popolazione. I tamburi della Guardia Nazionale suonano la generale, ovvero la carica, una ratantira tutt’altro che allegorica. La situazione sta per esplodere definitivamente e solo l’ordine di ritirata gridato da un ufficiale dei carabinieri, riporta tutti a più miti consigli, evita una carneficina e tutto si risolve con qualche ferito e una maschera tratta in arresto.
Il giorno seguente il sindaco Antioco Loru e il consiglio comunale, temendo nuovi disordini, implorano che il divieto di mascherarsi venga sospeso. La supplica viene accolta dalle autorità di pubblica sicurezza e il carnevale prosegue in tutta tranquillità.
Hanno vinto le maschere? Ha vinto il popolo? Si, ma è un poco come una vittoria di Pirro. Le autorità governative e la reazione della camarilla cittadina stanno per presentare il conto e chiedono a gran voce lo Stato d’Assedio. A Torino vengono mandati rapporti di polizia non corrispondenti alla realtà dei fatti, dispacci gonfiati per giustificare un così massiccio intervento di forza pubblica e per fare credere che a Cagliari si sia verificata una rivolta. Il sindaco, capendo che i fatti del carnevale stanno diventando il pretesto per assoggettare la città a un regime di polizia, protesta vivacemente ridimensionando il fatto e prendendo le difese dei suoi cittadini. Alcuni di loro vengono arrestati e processati nei mesi seguenti. La polizia indaga e cerca i responsabili della rivolta puntando l’indice verso la Gazzetta Popolare, “l’eco mazziniano in città” fondata da Giovan Battista Tuveri e attorno alla quale orbitano i deputati Giuseppe Sanna Sanna, Giorgio Asproni, il giornalista Brusco Onnis e altri apostoli del repubblicanesimo.
D’altra parte gli scontri hanno dimostrato alle autorità che non si può fare affidamento sul lealismo della Guardia Nazionale che viene prontamente disciolta. Ma la conseguenza più importante è che la notizia de i fatti di Cagliari giunge molto presto a Sassari dove il malumore generale sta crescendo velocemente e le provocazioni di gendarmi e bersaglieri di stanza in città non fanno altro che aumentare la tensione. Il 24 febbraio anche il carnevale sassarese si trasforma e dallo spensierato divertimento si passa ben presto a vivere ore di terrore. La popolazione. anche qui spalleggiata dalla Guardia Nazionale, si scontra ferocemente con i bersaglieri e i carabinieri, ma a differenza di quanto successo a Cagliari, qui ci scappa anche i morti con alcuni cavalleggeri che perdono la vita durante i tafferugli.
Spesso questi fatti vengono raccontati come episodi storici minori, quasi insignificanti. In realtà i provvedimenti successivi non si limitano ai processi e allo scioglimento della Guardia Nazionale. Lo Stato d’Assedio venne proclamato realmente ed esteso a tutta la provincia di Sassari; vengono sciolti i consigli universitari, rei di non aver impedito agli studenti di partecipare agli scontri; viene destituito il sindaco e sciolto il consiglio comunale di Sassari, vengono mandati in carcere due gerenti della Gazzetta Popolare di Cagliari colpevoli di aver raccontato i fatti del 15 e del 24 e sospese le pubblicazioni del giornale per cinque mesi. Si arriva addirittura a far occupare dai militari la sala dei pubblici esami dell’università sassarese e si impone agli studenti cagliaritani il divieto di fumare, portare il bastone e riunirsi nei pressi del rettorato. Tutti provvedimenti che portano i deputati sardi Niccolò Ferracciu, Giorgio Asproni e Francesco Sulis a protestare energicamente a palazzo Carignano contro il governo e i ministri dell’interno, della giustizia e soprattutto contro il ministro della guerra Lamarmora.
In quei giorni si creava un precedente che nel periodo unitario avrebbe trovato ampio sfogo anche nelle altre regioni del meridione, la truppa come unico antidoto al malcontento e alla miseria, lo stato d’assedio e il regime poliziesco come soluzione al malessere. A tal proposito Antonio Gramsci avrebbe scritto su ‘L’Ordine Nuovo’ nel 1920: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare chiamandoli briganti”.
Così in Sardegna furono repressi nel sangue i motti di Buggerru del 1904, quelli del 1906 e quelli di Iglesias del 1920 e soltanto con i moschetti della truppa, il carcere e il confino di polizia si volle porre rimedio al banditismo di fine secolo lasciando irrisolto ogni altro aspetto. Le maschere invece conobbero fortune alterne, fra un divieto e una concessione, alla fine il potere tollerò che per una volta all’anno fosse messo alla berlina, canzonato e simbolicamente bruciato nel rogo del martedì grasso. Ma presto morì anche il carnevale e ai giovani sardi mandati al massacro nelle guerre italiane non rimase che indossare le maschere antigas, come la popolazione di Cagliari del resto, prima di scappare dalla città distrutta dalle bombe, ultimo regalo di casa Savoia a quell’isola dalla quale prese nome il loro regno. Ad Alberto Lamarmora invece, con gratitudine per la repressione e per lo stato d’assedio, i nostri politici vollero intitolargli la cima più alta del Gennargentu, con buona pace di Antonio Gramsci e dei repubblicani sardi.
(In foto, Carnival in Rome, di Johannes Lingelbach custodito dalla Gemaldegalerie di Vienna)