(Articolo del 1 maggio 2023)
Da 367 anni, quasi senza soluzione di continuità, il primo giorno di maggio la città di Cagliari festeggia Sant’Efisio martire. Una ricorrenza particolarmente sentita che fa riversare nel capoluogo isolano folle di festaioli. C’è chi partecipa per sciogliere un voto, chi semplicemente per non perdere un evento che da tempo ha superato la sua dimensione strettamente religiosa, trasformandosi in una grande manifestazione che coniuga fede, devozione popolare, folklore e leggende, fino ad assumere i connotati di un fenomeno pop, che le rivoluzione digitale e la diffusione dei social network hanno sensibilmente amplificato. Un antico rito collettivo che trova il suo apice nella più lunga processione religiosa del Mediterraneo dove la parola d’ordine è “emozione”.

“Sant’Efisio mi fai emozionare”. Alzi la mano chi non ha mai sentito l’ormai storica frase dell’intervista impossibile rilasciata negli anni Novanta da Nico Bortis ai microfoni di Antonello Lai di TCS. Una frase che solitamente strappa un sorriso a chi la sente. Eppure la vicenda sarda di Efisio da Antiochia, destinato a diventare console celeste e super hero ever di Cagliari e dell’isola, non nasce da un lieto evento. Pare che tutto sia cominciato con il più classico dei “ti sbatto in Sardegna”, minaccia ante litteram riservato ai militari indisciplinati già all’epoca di Diocleziano. In questo caso la sua grande colpa sarebbe stata quella di essersi convertito al cristianesimo, credo che in passato aveva avversato e da fedele soldato di Roma represso nel sangue, un poco come facevano i suoi commilitoni chiamati a soffocare violentemente le rivolte dei mai domiti barbaricini e iliensi dell’entroterra. Leggenda narra che l’opera di conversione che Efis avrebbe svolto fra i pagani sardi, abbia raggiunto anche le falde del Gennargentu, sino al meseddu del monte Tescile, una singolare cima nei dintorni di Aritzo da dove avrebbe predicato e convertito quelle genti. La sua cattura, tortura e decapitazione del 303 a Nora, avrebbe portato i fedeli cagliaritani ad eleggerlo a loro martire protettore, sarebbe capitato l’anno successivo a San Lussorio e come era capitato lo stesso anno al turritano San Gavino, dando vita, de facto, al millenario derby fra Cagliari e Sassari, che prima che per questioni calcistiche si disputò sul terreno del martirologio.
Tuttavia, fino al 1600 la fede dei sardi si limitò a conservarne il culto e ad adorarne le reliquie, almeno fino a quando le sue spoglie non furono portate a Pisa, che le avrebbe restituite a Cagliari, in parte, soltanto nel 1886. Ciò non impedì ai sardi del capo di sotto di cominciare ad attribuire poteri taumaturgici a Sant’Efisio già dal 1656. In città per quattro anni aveva imperversato la peste barocca, passata alla storia come “Castigo de Dios”, e la sua scomparsa venne attribuita a una miracolosa intercessione ai piani alti del martire guerriero, invocato dalla popolazione e dalle autorità a suon di processioni e col trasporto del suo simulacro da Cagliari a Nora. Da allora, per riconoscenza, la cittadinanza, in tutte le sue rappresentanze, annualmente scioglie il voto del quale è debitrice.
Ma i miracoli attribuiti a Sant’Efis non si limitarono a questo. La cieca fede dei cagliaritani cominciò a farlo comparire ovunque ci fosse bisogno della sua poderosa intercessione. E così lo videro volteggiare sopra i bastioni, mentre l’artiglieria della marina militare della neonata repubblica francese, quando tentava di invadere l’isola nel 1793 per piantarvi l’albero della libertà, cercava invano di colpire le mura cittadine, con Sant’Efisio in modalità super saiyan che rispondeva colpo su colpo, rispedendo le palle infuocate al mittente. A questo si aggiunsero svariati interventi in ambito meteorologico, con il santo pronto a mandare la pioggia quando le vigne e i campi del Campidano rischiavano di soccombere sotto l’arsura delle annate di siccità o a perdonare i fanatici che lo nominavano troppe volte invano, soprattutto quando non era solerte nelle sue intercessioni. Non di meno dalla sua chiesetta di Stampace raggiunse le trincee del Carso e dell’Altopiano di Asiago per assistere, nelle angosciose ore che precedevano l’assalto, le anime degli “intrepidi soldati sardi” che stavano per farsi macellare come bestie in nome del Re Vittorio Emanuele.

Certo che questo rapporto del martire taumaturgo cone le autorità, civili, militari, governative, amministrative, politiche, religiose e chi più ne ha più ne metta, è abbastanza singolare e tra origine proprio in quel fatidico 1656. Da allora, il potere, tout court, è sempre stato rappresentato durante la processione che prima di prendere la via per Nora si snoda lentamente per le strade di Stampace. C’è l‘alter nos che all’epoca rappresentava il viceré della Corona Spagna – oggi relegato a quello di ambasciatore della municipalità – c’è la scorta dei miliziani armati a ricordare la guerra contro i francesi, ci sono le delegazioni dei nobili in frack e cilindro che sembrano uscite dalla celebre canzone di Modugno, e ci sono anche i valletti del comune di Cagliari, che per antico diritto vestono la livrea azzurra, gialla e rossa come se fossero usciti dal palazzo Carignano di Torino e non da quello di via Roma, quasi a ricordare alle genti sarde il loro indissolubile legame con casa Savoia.
Le traccas, i cavalieri, i broccati, gli scarlatti, le orbaci ricamate, le gonne variopinte e i fazzoletti degli antichi abiti sardi sono soltanto il più recente tocco di folklore che ha arricchito la pompa di questa processione, alla quale partecipano gruppi provenienti da tutta l’isola, oramai diventata un’infinita sfilata alla quale si può assistere dalle tribune piazzate lungo il tragitto. Tutto questo ha creato un fenomeno che non è esagerato definire pop, che seppur seguendo la tradizione viaggia oggigiorno attraverso libri, fumetti, spille, t-shirts, tazze e ogni sorta di gadget. Ieri anche i calciatori del Cagliari hanno indossato una maglia disegnata in onore del santo.

Nonostante le manifestazioni collaterali dei tempi andati, quelle che nel secolo scorso venivano chiamate “le feste di Maggio”, che contemplavano competizioni sportive, fuochi d’artificio, gare poetiche nei teatri cittadini e spettacoli di ogni genere, siano andate a scemare, la festa cagliaritana per antonomasia gode ancora di un’enorme partecipazione di popolo e di turisti. Una festa che coinvolge tutti, anche il più miscredente dei mangiapreti o il più incallito degli atei, una festa che va oltre la fede, la devozione o la semplice curiosità. Questa sua particolarità è attribuibile a qualcosa che non si può raccontare a parole, ma soltanto vivere ogni primo di maggio in una città che, fra il via vai dei suoi ospiti, triplica il suo caotico movimento ed esulta al passaggio di un cocchio trainato da due possenti buoi. In quel preciso istante si può cogliere l’essenza di questa festa centenaria, quella emozione alla quale accenna Nico Bortis nella sua strampalata intervista, che forse è veramente il segreto della sua longevità e della sua popolarità.
La stessa emozione che anche in quel buio maggio del 1943, con la città distrutta dai bombardamenti – dei quali quest’anno ricorrono gli 80 anni – ha portato alcuni pochi temerari rimasti fra le rovine a caricare il simulacro di sant’Efisio, per far si che il voto venisse rinnovato anche nella più desolante distruzione. Il 13 maggio seguente la città avrebbe conosciuto il più pesante bombardamento dall’inizio della guerra, senza che questa volta il suo santo prediletto potesse respingere quei carichi di morte, perché alla malvagità umana e all’idiozia della guerra nessuno ha mai potuto porvi rimedio.
Neppure Sant’Efis.