Una procedura “partecipata e trasparente” che porterà “possibili benefici economici e di sviluppo territoriale”: ecco, in sintesi, com’è descritto sul sito del Ministero dell’Ambiente il processo per l’individuazione del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. La notizia è di strettissima attualità: martedì 5 gennaio la Sogin, la società di Stato responsabile del decommissioning degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi, ha pubblicato la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (Cnapi) dove stoccare per i prossimi 300 anni i rifiuti nucleari prodotti in Italia.
Nell’elenco ci sono 67 siti individuati in Piemonte, Toscana, Lazio, Basilicata, Puglia, Sicilia. E Sardegna: nell’Isola (qui la tavola in pdf) sono stati individuati i territori di Assolo, Villa Sant’Antonio, Albagiara, Usellus, Nuragus, Nurri, Genuri, Setzu, Turri, Pauli Arbarei, Ussaramanna, Las Plassas, Villamar, Mandas, Siurgus Donigala, Segariu, Guasila, Ortacesus tra le province di Oristano e Sud Sardegna. La buona notizia, si fa per dire, è che l’Isola tra le sette regioni italiane è classificata come ‘B’, meno idonea rispetto alle altre.
Cosa succederà ora? Le informazioni sul sito www.depositonazionale.it sembrano rassicuranti, a partire dal sottotitolo “scriviamo insieme un futuro più sicuro” e dall’aspetto grafico della pagina, dove predomina un tranquillizzante colore verde. Il processo è presentato come “partecipato e trasparente”: “Nei sessanta giorni successivi alla pubblicazione, le Regioni, gli Enti locali, nonché i soggetti portatori di interessi qualificati, possono formulare osservazioni e proposte tecniche”. Dopo questa consultazione ci sarà un seminario nazionale: “un dibattito pubblico vero e proprio – si legge sul sito del Ministero dell’Ambiente – che vedrà la partecipazione di enti locali, associazioni di categoria, sindacati, università ed enti di ricerca, durante il quale saranno approfonditi tutti gli aspetti, inclusi i possibili benefici economici e di sviluppo territoriale connessi alla realizzazione delle opere”. Sulla base delle osservazioni scaturite da questi lavori verrà pubblicata mesi la Cnai, ovvero la Carta nazionale delle aree idonee: “sarà una procedura fortemente partecipata e trasparente, condotta coinvolgendo gli amministratori e i cittadini tutti, e al termine della quale potranno pervenire le candidature dei comuni”. Ma è davvero tutto così sicuro, trasparente, partecipato?
Il deposito nazionale e il parco tecnologico saranno costruiti con una spesa di 900 milioni di euro in un’area di circa 150 ettari (110 dedicati al deposito e 40 al parco tecnologico). Il deposito avrà 90 celle in calcestruzzo armato con moduli in calcestruzzo speciale che racchiuderanno a loro volta i contenitori metallici con i rifiuti radioattivi. Il tutto sarà poi coperto da terra e materiale inerte, in modo da creare una collina artificiale. Il sistema così progettato permetterà l’isolamento dei rifiuti radioattivi dall’ambiente per oltre 300 anni “fino al loro decadimento a livelli tali da risultare trascurabili per la salute dell’uomo e l’ambiente”.
Di quali scorie si tratta? “Circa 78 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media attività – ancora sul sito del Ministero dell’Ambiente – dei rifiuti provenienti dal mondo civile e in special modo da quello medico e ospedaliero, dalle sostanze radioattive usate per la diagnosi clinica, per le terapie anti tumorali, ad esempio, da tutte quelle attività di medicina nucleare che costituiscono ormai il nostro quotidiano”.
Sappiamo però che i rifiuti radioattivi non arrivano solo dalla medicina nucleare, di cui ormai non possiamo fare a meno: la Sogin ha infatti il compito di smaltire i residui dell’attività elettronucleare italiana, attiva fino al 1987 quando con un referendum si decise per lo stop delle quattro centrali italiane, Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta) e l’impianto FN di Bosco Marengo (Alessandria), e in generale i rifiuti radioattivi temporaneamente sistemati dentro strutture provvisorie.
Immediato in Sardegna, subito dopo la pubblicazione del documento, il coro dei No, a partire dal comitati cittadini che si stanno mobilitando in questi giorni con incontri e manifestazioni, ai sindaci isolani e ai consigli comunali di tutta l’Isola e al Consiglio regionale, che ha rinnovato con un documento condiviso il No della Regione Sardegna al deposito nell’Isola. C’è poi, non secondario, il referendum consultivo del 2011: il 95% dei votanti si espresse contro le scorie nucleari nell’Isola.
LEGGI ANCHE: EDITORIALE. Il No alle scorie nucleari, l’emozione che spinge all’azione
Una delle motivazioni più forti è il fatto che la Sardegna abbia già rinunciato a una parte consistente del suo territorio, comprese zone costiere e territori a vocazione agricola e turistica, per le esigenze nazionali: ospitiamo il 60% delle servitù militari del paese, 35 mila ettari sono sotto servitù militari e 20 mila chilometri quadrati in mare sono interdetti ogni anno per diversi mesi alla pesca, alla navigazione e alla sosta per le esercitazioni dei poligoni militari. Abbiamo poi tantissime aree industriali e minerarie che necessitano di bonifiche. Un sito nazionale di stoccaggio sarebbe l’ennesima porzione di territorio sottratto alle comunità e a territori già provati dalla crisi, dallo spopolamento, da vecchie e nuove scelte politiche ed economiche non sempre felici. E ci verrebbe restituito, non sappiamo in quali condizioni, fra 300 anni.
Il futuro e lo sviluppo della Sardegna non passerebbero certo per un deposito di rifiuti radioattivi. Per non parlare del fatto che il trasporto, via mare prima e via terra poi, avrebbe rischi potenzialmente catastrofici per l’ambiente e la salute. Un pericolo non certo ‘trascurabile’.