Cos’è un racconto senza concedersi il lusso del divagare?
Dove ti porta un discorso se non si cede all’insistente tentazione di cambiare strada?
Divagare.
Sterzare, senza avere una meta, né secondi fini.
Ritrovare spazio, riguadagnare aria e vantaggio – tutto questo disse Rossano a se stesso, a voce bassa mentre guidava la sua piccola auto rossa, da solo, attraverso decine di gentili curve di disordine primaverile nelle strade della sua Isola.
Devo chiudere il mio romanzo, terminarlo – continuò a ripetersi – perché l’alibi di non sentirsi mai pronti era ormai una ridicola scusa alla quale nemmeno lui stesso credeva più da tempo. Il mio romanzo, sì, con abbondanza di luoghi spettinati, di inverni inesistenti e di poche persone, gli ingredienti li ho tutti, non è necessario assaggiarli ancora una volta.
Lusingato dalla luce del sole, diffusa da mille veli e da ricami di nuvole stirati dal vento, improvvisamente volse la sua auto verso nord-ovest, in quella direzione contraria al vento di Maestrale, abbastanza teso, che sembrò subito indispettirsi.

Vincerò io – pensò, sorridendo – dopotutto è una bella giornata.
Dopo qualche chilometro percorso in apnea, il paesaggio si fece ondulato, poi un poco più piatto, aprendosi allo spazio di una spiaggia bianca su un mare senza orizzonte, ridotto ad una linea indefinita tra il cielo e le indecisioni.
Rossano quindi si fermò, scese dall’auto, camminò sulla sabbia inciampando su rocce e dubbi. Il paesaggio mutò ancora, ingannandolo – come al solito – con promesse di selvaggia natura. Una truffa. Tra feroci segni di antropizzazione, costruzioni varie, seconde case, ristrutturazioni, si sentì però a casa. Anche con il sopraggiungere di alcuni ricorrenti pensieri, si sentì a casa. Così sospeso com’era, tra una lieve agorafobia e un desiderio di riscatto, non si accorse della palla da calcio in arrivo, che lo colpì violentemente sulla faccia, lasciandolo per un attimo sorpreso e, soprattutto, intontito.
Le risate, quelle risate, e una voce, poi: “scusa – disse sguaiatamente il ragazzo, mentre a poca distanza le risate batterono il tamburo più forte – mi puoi ridare la palla?”

Rossano non rispose, raccolse la palla, con uno sforzo rabbioso quanto maldestro la calciò indietro, imponendole una incerta traiettoria. Inciampò pure – di nuovo – e cadde. Battendo la testa sulla sabbia dura svenne.
In quei pochi secondi sognò vorticosamente: gli parve di sentire una folla immensa ridere, vide il volto di lei, che non sentiva più da mesi; gli apparve il padre, che gli ripetè quanto fosse un buono a nulla; gli si presentarono gli amici in camicie sgargianti, all’improvviso una festa e musica e balli ed era estate e faceva un caldo terribile. Sognò Giovanni Lindo Ferretti, Giovanni Paolo II, le giostre, i torronai, i coltelli artistici. Vide la sua coscienza farsi donna, avvolta da un scialle nero. Gli apparve una scatola di penne Bic e cinquanta matite gialle spuntate, fogli bianchi a non finire e la lavagna delle elementari con una sola parola scritta con il gessetto e ripetuta, “Mare Mare Mare” ma che lui nel sogno leggeva “Male Male Male…” Infine, vide il suo romanzo stampato e pubblicato, poggiato su una sdraio, le pagine lette dal vento. Si avvicinò, prese il libro tra le mani, ne riconobbe lo stile – lo conosceva a memoria, ovviamente – era proprio il suo, lo sfogliò nervosamente sino a voler raggiungere le ultime pagine, per cercarne la conclusione e per leggerne il finale. Le ultime dieci pagine – precisamente dieci – erano bianche. Vuote, di un bianco giallastro indecifrabile.

Rinvenne in quel momento, mentre un grande cane gli leccava una mano e un uomo dall’età indefinita si impegnava a soccorrerlo, con precisi gesti e buffetti sulle guance e acqua fresca di mare a bagnargli il viso. Nessun altro attorno. Eran tutti fuggiti.
Quanto è salata quest’acqua…- pensò Rossano – non me ne ero mai accorto. E quanto fa caldo qui… devo essermi perso. E tutte quelle persone, ecco, quelle persone, e le risate… ora dove sono?
Rialzandosi, dopo un minuto circa, salutò l’uomo, diede una carezza distratta al cane festante e, rassicurando soprattutto se stesso, si incamminò verso la sua auto. Il sole iniziava a desistere, il pomeriggio gli suggeriva il ritorno.
Un’altra giornata inutile – pensò seriamente, il viso arrossato – del divagare io ne son maestro. Meglio ritornare, che ho un po’ di chilometri da percorrere e patemi d’animo troppo attillati.
Quella stessa notte Rossano dormì sorprendentemente bene e sognò Giovanni Paolo II, Giovanni Lindo Ferretti, dei torronai che lo inseguivano e dieci pagine del suo romanzo ancora incompiuto.
Erano pagine bianche.