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“Non chiamateli hikikomori”, la psicoterapeuta Francesca Moroni ci spiega i molti perché di chi rinuncia alla vita sociale

Di Giacomo Pisano
29/03/2025
in Comunicazione e società, Interviste
Tempo di lettura: 5 minuti
“Non chiamateli hikikomori”, la psicoterapeuta Francesca Moroni ci spiega i molti perché di chi rinuncia alla vita sociale

Il fenomeno è nato in Giappone e ha interessato soprattutto i maschi dai 18 anni fino ai 40. Il termine hikikomori deriva dalle parole hiku, “tirare”, e komoru, “ritirarsi” e allude alla chiusura materiale della porta di casa (spesso addirittura della propria stanza) e a quella simbolica al mondo. Chi si ritira rinuncia alla vita sociale, a qualsiasi interazione con l’esterno ed è molto difficile invertire la rotta una volta che quella porta è stata chiusa.

In Italia la rivista Scientific Reports riporta l’interessante studio “Mutamenti sociali, valutazione e metodi” (Musa) a cura dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Cnr-Irpps). Il dato che emerge è allarmante: i ritirati in casa sono quasi raddoppiati a seguito della pandemia, passando dal 5,6% del 2019 al 9,7% del 2022, con una percentuale in aumento. Abbiamo chiesto a Francesca Moroni, psicoloterapeuta cagliaritana e autrice del libro “Questioni d’amore” edito da Giunti, di spiegarci meglio il fenomeno, quali sono le cause e come possiamo intervenire.

“Nel 2018 sono stata in Giappone e mi ha scioccata vedere questo isolamento nella folla, tutti erano chini sullo smartphone tenuto piuttosto vicino al viso, senza alcuna interazione con l’ambiente circostante, compreso nei ristoranti e nei locali. È stato inquietante. Il fenomeno però è molto diverso nel nostro paese. Intanto parliamo di una fascia d’età più circoscritta ai giovanissimi di ambo i sessi e si tratta di ritiro sociale volontario. La scuola non viene abbandonata o non del tutto, la rinuncia riguarda tutte le attività extra scolastiche, parliamo quindi di fobia sociale. Spesso si tende, a età sempre più giovane, 12 o 13 anni, a evitare ogni attività esterna. Il meccanismo si innesca a causa del confronto e poi si estende anche alla scuola per via degli attacchi di panico. Il risultato è che il giovane teme di andare a scuola perché ha paura di star male e si sente inadatto. A casa sto bene, protetto dai genitori, quindi non esco più. Una volta entrati in questo meccanismo è come se si avesse la conferma della propria inadeguatezza al mondo, uscirne diventa faticoso”.

Il tempo per queste persone si ferma e le blocca in una situazione in cui alimentano un gap con i loro coetanei che invece affrontano le sfide piccole e grandi della vita, aumentando quindi il senso di incapacità a reagire e la distanza da quelle esperienze formative indispensabili a renderle adulte. Oltre a questo esistono altre consguenze?

“Rifiuto le cose che mi fanno paura, resto a casa mi rassicuro ma poi mi sento incapace di uscire, mi deprimo. È un circolo vizioso possono esserci disturbi alimentari, del sonno, paranoia, disturbi dissociativi fino al rifiuto di uscire dalla propria stanza. Ecco cui possiamo parlare di hikikomori”.

La pandemia di Covid19 ha certamente acuito un malessere latente, un intervallo di tempo percepito dagli adulti come breve ma oltre al lockdown ci sono state tante restrizioni sociali e questo ha segnato le persone che erano in crescita proprio in quegli anni.

“Leonardo da Vinci ha detto che l’esperienza è la madre di ogni certezza se io non faccio esperienze concrete non ho alcuna certezza, dubito, non mi fido, tentenno per paura dell’errore. La mancanza di parametri mi rende inabile. Le persone che hanno un cervello altamente sensibile, una su quattro, probabilmente si son trovate molto più esposte e in difficoltà nel recupero dopo. Tutto il loro mondo è la scuola e private di quelle relazioni si sono rifugiate in frustrazioni autolesioniste, in alcuni casi antisociali o al ritiro appunto nella propria casa”.

Alle esperienze relazionali mancanti ci sono anche quelle della sfera dello sviluppo emotivo e sessuale, e tra le conseguenze c’è anche quella del disinteresse totale all’altro?

“Questo è un fenomeno addirittura più ampio, che sto riscontrando anche tra i 20 e 30 anni. Premetto che non voglio affatto demonizzare la pornografia, ma la sua fruizione così facile crea delle aspettative. Spesso i miei pazienti mi dicono che hanno paura del confronto con le performance offerte dagli attori perché non si sentono adeguati, uno per tutti Rocco Siffredi, e temono partner troppo esigenti. Inoltre, se fin da piccolo, 11 o 12 anni, posso avere quei contenuti che mi soddisfano con la masturbazione senza bisogno di cercare le altre persone, alimento l’idea di chiusura e di non necessitare di relazioni. L’estremizzazione di tutto ciò è il rifiuto anche dei canali social e quindi ci si condanna all’isolamento totale”.

È come se mancasse la fiducia di base, in sé stessi e negli altri, una posizione di stallo.

“Esattamente questo. Non ho esperienze quindi non mi fido della mia percezione. Non credo in me stesso perché mai dovrei fidarmi degli altri? I genitori, in questo momento, sono purtroppo spesso inadeguati, si è passati dal troppo autoritarismo a una iperprotettività molto pericolosa. Li privano degli ostacoli, gli danno mille opportunità caricandoli così di aspettative. Oltre al fatto che l’eccesso di attività non permette di scoprire cosa realmente ti piace. Spesso questo comportamento non fa che generare ansia anche in bambini piccolissimi”.

Quali sono i segnali che possiamo cogliere per aiutare queste persone a riacquistare la loro vita?

“Spesso si isolano anche in classe, quindi anche gli insegnanti possono accorgersi di qualcosa che non va. Lo sportello psicologico nelle scuole non è sufficiente però a supportarli perché è facoltativo. Se io temo il confronto non vado a chiedere aiuto, piuttosto chiedo ai miei genitori di salvarmi da quell’ansia. Naturalmente per i genitori le possibilità sono più ampie e si identificano con l’abbandono dello sport e delle attività extra scolastiche, il disinteresse verso le uscite con gli amici, una generale apatia. Non bisogna trascurare questi segnali. Magari può essere un malessere solo temporaneo ma è bene vigilare perché le relazioni sociali, non necessariamente eclatanti, bastano una o due amicizie, sono fondamentali. Spesso i genitori sono troppo occupati tra lavoro e impegni personali da non rendersi conto per tempo di questo disagio ma bisogna cercare di spezzare il cerchio prima che la situazione si acuisca. Ricordiamoci una cosa importante: nulla è irrimediabile, se finora hai vissuto la tua vita in stallo non è detto che debba proseguire così, si può sempre cambiare. Bisogna essere onesti anche nella terapia. La parola ormai non esiste. Io a loro dico sempre che il tempo non si perde e non si guadagna, lo impieghi bene o male ma se fino a questo momento lo hai gestito male non è detto che da ora in poi tu non possa usarlo in modo diverso e proficuo, costruendo competenze e strumenti che ti servono per vivere”.

Con il contributo fotografico di Chiara Chillotti

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