Quando Danilo Murru, fotografo cagliaritano classe 1973, ha lasciato la Sardegna per andare a vivere e a lavorare a Londra, lo ha fatto, come tanti viaggiatori, con un’idea ben precisa di cosa sia casa. Oggi, dopo trent’anni di attività, ci racconta la sua Isola, fatta di volti e angoli dimenticati con la mostra “Il punto più lontano era casa”, ospitata nel Centro Comunale d’Arte e Cultura Il Ghetto a Cagliari fino al 31 maggio.
Murru non ama la fotografia patinata, le ricostruzioni, le finzioni. La sua idea di immagine è fedele alla realtà, che si compone di infiniti dettagli, siano panorami, architetture o persone, privati dell’aspetto rappresentativo e per questo portate, per contrasto, ad essere fortemente narrative del loro contesto originale.
La giornalista, scrittrice e critica Susan Sontag disse che “Tra la difesa della fotografia come mezzo superiore per esprimere sé stessi e l’elogio della fotografia come modo superiore di porre sé stessi al servizio della realtà, c’è meno differenza di quanto non paia. Hanno in comune il presupposto che la fotografia offra un sistema unico di rivelazioni: che ci mostri la realtà come non l’avevamo mai vista”. Ed è esattamente questo che Danilo Murru porta avanti da anni interessandosi soprattutto di quei luoghi di seconda scelta come le periferie misconosciute e diventando alfiere di una poesia urbana a volte involontaria e inconsapevole del suo valore che si manifesta con grande forza evocativa nelle sue fotografie.
È la sua personale visione del mondo, che lo ha portato a recarsi in zone di conflitto come Beirut e la Palestina o a raccontare per immagini alcuni istituti penitenziari. Dal 2010 al 2016 ha fotografato le miniere dismesse del sud-ovest della Sardegna, inserite nel suo primo libro “Ciò che Rimane” edito da Champions Books. Un occhio attento al cambiamento di città e borghi rurali che lo rende universale, infatti molti suoi lavori sono stati esposti in mostre collettive e personali anche fuori dall’ Italia, ad esempio in Gran Bretagna, Paesi Bassi, Francia e Colombia.
Nell’assenza, nell’ombra, nel non detto, Murru trova la sua voce, una voce chiara, cristallina e piena di sentimento. C’è una evidente volontà di leggere il mondo con lo sguardo degli ultimi, di chi si muove a bordo campo e vive nei margini ma senza l’apparato didattico di recupero del valore suburbano e senza proclami di riscoperta del mito del buon selvaggio: semplicemente la realtà, la nuda verità della cronaca. Un modo originale e coraggioso di interpretare il mondo.
La mostra, organizzata da Agorà Sardegna e Coopculture, in collaborazione con il Comune di Cagliari e con il contributo della Fondazione di Sardegna, si compone dunque di un’alternanza di luoghi e persone apparentemente avulsi dal tempo, talmente veri da sembrare simbolici. Un susseguirsi di visi, corpi, interazioni, architetture come frame di un film ancora inedito. Nessuna concessione alle graziosità, alle cartoline cliché. La vita è catturata nella sua quotidianità più sincera, nelle sue stridenti dicotomie, nelle sue inesattezze.
Un grande ruolo lo ha la luce, la sua forza drammatica ben codificata dal Caravaggio così come dal Neorealismo, conferma il suo posto d’onore in questa storia e Murru la padroneggia con abilità da narratore navigato, rispettando la drammaticità dei luoghi e, naturalmente, delle persone colte nella loro splendida e finita umanità.
È un’isola ben lontana dalle pubblicità, dal chiasso dei turisti, dal marketing ossessivo, dagli slogan facili e vacanzieri che poco hanno a che fare con la dignità e la storia. È, invece, uno spazio che finalmente appartiene a chi la abita, e che viene proposto come un gioco di condivisione della memoria, dei ricordi e dei significati tra chi fotografa, chi è fotografato e chi guarda.