Il 28 marzo del 1995, a dieci anni esatti dalla nascita della band, i Timoria pubblicavano ‘2020 Speedball’, il loro quinto album. Reduci dal successo di ‘Viaggio Senza Vento’, il concept che aveva dato una svolta decisa al loro percorso artistico, con questo nuovo lavoro spiazzarono un poco tutti con un sound decisamente più aggressivo e a livello concettuale con brani a proiezione futura che dichiaravano guerra alla società dell’epoca e mettevano in risaltò il disgusto di Omar Pedrini e soci verso un mondo destinato alla rovina e all’isolamento dell’uomo. Un disco visionario, duro, profetico, potente ma anche ricco di spunti poetici e citazioni letterarie, una delle più ispirate produzioni dei Timoria, pietra miliare del Rock alternativo italiano degli anni ’90, che a trent’anni di distanza “sputa rabbia e verità”, come recitano i versi della seconda title track e sprigiona ancora freschezza, lasciando quasi attoniti per la sua lungimiranza.
Omar Pedrini non ha mai voluto elevarsi al Nostradamus di turno, sarebbe stato uno dei tanti ‘Guru‘ dei quali il mondo si sarebbe presto arricchito, ciarlatani sprigionati all’etere che pian pano avrebbero trovato nuovo alloggio nell’allora nascente interconnessione globale. ‘2020 Speedball’ nasceva invece dalla riflessione di un ventisettenne all’epoca, 1994, particolarmente ispirato che immaginava il futuro del figlio primogenito Pablo che agli albori della terza decade del Duemila avrebbe avuto 27 anni. Come era questo futuro? Esattamente come lo ha descritto la sua felice penna nel comporre i testi per il nuovo disco, che, pur non avendo i crismi del concept album precedente, che canzone dopo canzone raccontava la storia di Joe, seguiva un unico filo conduttore che portava dritti a un mondo dominato da macchine, computer, intelligenze artificiali, spazi cibernetici, intolleranza, inquinamento e guerre.

E allora eccolo il 2020 “profetizzato” dai Timoria che parte dalle sexy solitudini cantate qualche anno dopo dai Marlene Kuntz, dove anche il sesso è appannaggio del mondo virtuale, un “piacere industriale” di una generazione ingabbiata e lobotomizzata nella sua “Brain Machine”. Sono problematiche presenti scaraventate verso il futuro, i coltelli affilati che da allora faranno a pezzi intere generazioni a colpi di paradisi artificiali e sostanze (il riferimento allo speedball non è per John Belushi ma per River Phoenix) che cercheranno la via d’uscita nell’evasione dalla realtà ma moriranno ancora una volta in schiavitù. Un novello futuro “no future”, una versione aggiornata di quello degli anni Settanta urlato dai Sex Pistols, dove il punk diventa cyber e si balla soltanto la dance decadente, con “dj che un tempo mettevano i dischi e ora fanno gli artisti” e la musica cosmico funk di adolescenti persi nella sacra follia dei ‘Weekend’ fra “pillole e filosofia” e stragi del sabato sera che già allora riempivano le colonne della cronaca.
Esiste un’altra via di fuga? Anche in questo disco torna un tema tanto caro ai Timoria, quello del viaggio. La soluzione forse sarebbe quella di andare lontano, in ‘Sud America” ad esempio, fra le strade percorse da Ernesto Guevara de la Serna e dove tirava i primi calci alla palla Diego Armando Maradona o perché no, nello spazio inesplorato delle galassie a bordo della navicella “Europa 3” per “sentirsi vicino a Dio e in una stella nuova trovare quello che qui non c’è”. Alla fine ci si ritrova invece sempre nelle strade di casa, senza parole, stanchi, delusi, senza più nulla da raccontare, mentre il tempo scorre veloce come le auto che sfrecciano fra la nebbia della Strada statale 11 Padana Superiore.
Il disco, prodotto dal compianto Angelo Carrara, è un concentrato di stili che hanno caratterizzato la fine del millennio. Diego Galeri e Ilorca picchiano come non mai, le chitarre rabbiose di Pedrini si alternano a quelle più dolci e acustiche delle ballate, siamo in era di unplugged e si sente; si respirano la Seattle degli Alice In Chains, i Pantera e i Sepultura (con il maestro Enrico Ghedi a far da “Cavalera” nella grintosa “Mi manca l’aria” ) i Pink Floyd più eterei, le drum machine della rivoluzione digitale incombente e gli echi della golden age del rap. Lo stesso discorso vale per le suggestioni letterarie e poetiche che hanno sempre caratterizzato le liriche di Pedrini, da Herman Hesse (“Bocca d’Oro“) ad Isaac Asimov e Ernest Hemingway con i versi cantati da un ispiratissimo Francesco Renga, “Senza far Rumore” e “Fino in Fondo! sono da brividi.

Gran parte di quanto raccontato da questo disco si è lentamente avverato. I guru multimediali hanno traslocato di social in social e forti di seguaci e visualizzazioni, continuano a predicare a uomini e donne senz’anima; il “no money no love” digitale spopola a suon di token, la musica di plastica la fa da padrona e l’umanità che da decenni sognava di scappare da inquinamento e tirannia su altri mondi è ancora qua, imprigionata in quella rivoluzione artificiale che, come avevano mestamente profetizzato quei giovani ragazzi cresciuti nella venale Brescia, ha avuto come esito quello di interconnettere il mondo e per contro di allontanare l’individuo dall’individuo, di isolarlo sempre più e di indirizzarlo verso nuove dipendenze.
Fa quasi tenerezza vedere oggi il piccolo Pablo in una vecchia puntata del Roxy Bar di Red Ronnie che aveva come ospiti i Timoria che presentavano “2020” o lo stesso Omar intervistato da un giovanissimo Caparezza a “Segnali di Fumo”. I cupi tempi pronosticati allora sono arrivati, per certi versi sono ancora peggiori di quelli allora così lucidamente ipotizzati e gli avvenimenti di questo lustro ci indicano un futuro tutt’altro che idilliaco. Ci resta però questo disco, uno dei più belli della produzione dei Timoria e uno dei più importanti della storia del rock italiano, un album alienato ma di rara bellezza che racconta ancora oggi il fuoco che animava quella generazione di band, Afterhours, Ritmo Tribale, Marlene Kuntz ecc, che hanno raccontato una stagione forse irripetibile ma che potrebbe insegnare tanto a quei ragazzi che, ultimamente. hanno riscoperto la bellezza di suonare la musica rock e di far crescere petali nuovi in un giardino dove abbondano i fiori di plastica.