Berka, sobborgo a sud di Bengasi, ore sette del 25 maggio 1913. Nel cortile della caserma, in mezzo al plotone schierato a quadrato viene condotto un uomo in divisa. Fatte presentare le armi il capitano Fonseca legge la sentenza del Tribunale di Guerra e la formula della degradazione. Un caporalmaggiore si avvicina al condannato, posto sull’attenti col viso arrossato e lo sguardo torvo, gli strappa il berretto, la giubba e li scaglia lontano con sdegno. Finita la cerimonia il prigioniero viene ricondotto in cella e pochi giorni dopo viene mandato a Gaeta dove dovrà restare in domo petri sino alla fine dei suoi giorni. Ma chi è costui e cosa ha fatto di così indicibile da meritare una simile punizione?
Il condannato si chiama Giovanni Biagioli, è nato a Tonara nel 1890 da madre indigena e padre originario di Casio e Casola sull’Appennino bolognese. Dopo una piccola condanna per furto da parte del pretore di Iglesias nel 1911 decide di arruolarsi volontariamente per partecipare alla nuova “impresa” bellica voluta dal governo Giolitti, che lo stesso primo ministro definirà “una fatalità storica”, passata alla storiografia come la Guerra Italo-Turca; per i sardi, più semplicemente, “Sa Gherra ‘e Libia“. Sbarcato a Bengasi con il Quarto reggimento fucilieri viene destinato alla ridotta Roma, prende parte a diversi combattimenti e si comporta valorosamente. Ai primi di giugno del 1912 però viene accusato di aver rubato cento lire dal portafogli perduto da un suo superiore, il sergente Cataldi e pur negando l’imputazione e sostenendo di averlo rinvenuto casualmente a terra, viene arrestato e chiuso in prigione in attesa di processo.
Il Biagioli è disperato e ne scrive alla famiglia, alla quale manifesta di non avere alcuna intenzione di fare la fine di un altro soldato che per un fatto simile era stato condannato a diversi anni di carcere, così con un pretesto elude la sorveglianza della sentinella e scappa. Attraversando il Lago Salato, raggiunge Guriunes a nord di Bengasi e nei pressi di una spiaggia, sventolando un fazzoletto bianco, si consegna nelle mani dei soldati turchi che lo trasferiscono subito al campo di Benina. La diserzione viene annunciata dall’agenzia di stampa Stefani – antesignana dell’Ansa – a tutti i giornali che diffondono la notizia e la condiscono anche di dettagli bizzarri: il soldato Biagioli avrebbe abbracciato la religione islamica, si sarebbe fatto circoncidere e vestito in uniforme ottomana avrebbe giurato fedeltà al Sultano Mehmet V.
In realtà il giovane tonarese, una volta arrivato al campo si rende conto della gravità dell’azione commessa e chiede al generale turco di essere rimandato al campo italiano. Questi gli fa notare che l’idea non sarebbe affatto intelligente, dal momento che la sua diserzione sarebbe inevitabilmente scontata con la fucilazione. Gli si propone allora di partire per l’America dove ha un fratello, Giuseppe, che lavora nel compartimento minerario di Ironwood in Michigan, ma rifiuta anche questa opzione, sostenendo che alla fine non gli importa di morire e l’unico suo desiderio è di tornare in Sardegna per riabbracciare la madre.
La pace di Losanna del 1912 sancisce però la fine delle ostilità e Biagioli si unisce alla carovana di ottomani che devono fare ritorno in patria.
Così a dorso di cammello attraverso Alessandria, Suez, la Terra Santa e Beirut raggiunge Istanbul dove si presenta all’ambasciata italiana. Qui viene arrestato e rimandato nuovamente a Bengasi dove il Tribunale di Guerra, che lo aveva già condannato a morte in contumacia, in un secondo processo in contraddittorio lo assolve per il reato di furto e concedendogli le attenuanti tramuta la pena in ergastolo, ne ordina la degradazione e lo manda a scontare la pena in quel di Gaeta.
La vicenda viene subito presa a cuore da un suo compaesano, l’avvocato Antonio Gessa, che con interrotto fervore giovanile, quasi per il prepotente desiderio di giustizia e di mitigare col conforto dell’opinione pubblica una sentenza tremenda che uccideva civilmente un uomo ed una famiglia – la madre Maria Rosa portava il lutto come se il figlio fosse morto – e anche per spirito di fratellanza comunale, ininterrottamente per nove anni persiste nell’invocare un atto di clemenza in favore dello sventurato che invano domanda dal fondo della sua prigione di partecipare alla nuova guerra contro l’Austria – Ungheria per riabilitarsi. Con il determinate aiuto del deputato Giuseppe Cavallera, il padre putativo del socialismo sardo e con quello del decano dei deputati sardi, il liberale Francesco Cocco Ortu che portano più volte le istanze del Biagioli in Parlamento e nelle altre sedi competenti, l’avvocato Gessa otterrà per il suo assistito la riduzione della pena a vent’anni. Ancora indomito proseguirà tenacemente attraverso un’intensa campagna stampa dove invocherà l’intervento del Sottosegretario alla guerra Pietro Lissia che, finalmente, nel 1922 porterà alla tanto agognata grazia per Giovanni Biagioli.
Antonio Gessa, sincero sostenitore della giustizia e della libertà, sardista e amico di Emilio Lussu e Cesare Pintus, sarà perseguitato e incarcerato dal Fascismo che combatterà fino alla fine, diventando il comandante partigiano Tiraboschi. A proposito di questa vicenda scriverà: “Il condannato, a me personalmente sconosciuto, appariva degno di protezione non solo per l’istintiva solidarietà che corre fra i nati di una stessa terra, ma perché da un complesso di circostanze concrete con luce meno sinistra trovava nel cuore umano una scusante non accordata dalla freddezza del Codice penale militare. Vi sono cadute che destano sempre compassione e suscitano in ogni anima un senso di profonda tenerezza perché sembrano dovute non a malvagio proposito ma ad avversità di eventi. Così mi era parsa l’odissea del povero Biagioli per il quale durante il periodo di nove anni ho scritto e ho detto come potevo, interessando uomini politici e giornali in suo favore”.
Giovanni Biagioli morirà da uomo libero a Tonara nel 1947.