“Chi non conosce la propria storia è condannato a riviverla” recita un arcinoto assunto di Edmund Burke. Forse fu questo a spingere il Consiglio regionale della Sardegna ad istituire con la Legge regionale 14 settembre 1993 n. 44 la festività denominata da allora “Giornata del popolo sardo” che nei suoi auspici doveva essere un’occasione di riflessione storica e di arricchimento culturale per gli studenti di ogni ordine e grado. Cosa resta oggi a quasi trent’anni di distanza? La scuola e le istituzioni regionali sono riuscite in questo lungo lasso di tempo a far affrontare ai propri studenti il tema del 28 aprile 1794 in modo critico e con coscienza identitaria? O oggi come allora i ragazzi sardi non vanno a scuola senza sapere neppure il perché?
Questione vecchia, nota ormai all’orbe e agli orbi, si diceva un tempo. Eppure il problema venne sollevato già in quegli anni, quando, sempre nel progetto delle istituzioni, la giornata di vacanza scolastica era prevista per dare modo agli studenti di partecipare a iniziative culturali, celebrazioni, concerti e rievocazioni storiche in costume.
Alcuni docenti sostennero che aveva poco senso istituire un “liberi tutti” dal momento che nella stessa scuola la storia sarda veniva studiata poco o nulla e che quindi sarebbe stato più opportuno prendere dei provvedimenti che mirassero prima di tutto a far conoscere le vicende storiche dell’isola durante l’anno scolastico e magari in quella giornata organizzare eventi di approfondimento che andassero oltre le rappresentazioni teatrali in piazza.
A conti fatti queste considerazioni rimasero lettera morta e pian piano, negli anni a venire, l’insegnamento della storia isolana è praticamente rimasto allo stesso punto. Salvo alcune concessioni al periodo nuragico e alle sempre attuali gite scolastiche ai siti archeologici di Barumini o del Losa, che hanno spesso il sapore di un approccio turistico in casa nostra, o alla rievocazione della figura mitica di Eleonora d’Arborea d’epoca giudicale, per il resto assistiamo a un vuoto cosmico dove ogni tanto splende a intermittenza la stella di Emilio Lussu e della Brigata Sassari o quella sempre luminosa di Gigi Riva.
Sembra quasi che noi genti di Sardegna abbiamo l’irrinunciabile bisogno di alimentare i nostri miti, ( quello di Atlantide identificata da alcuni proprio nella Sardegna non è che uno degli esempi più lampanti) di custodirne le immaginette e di adorarne i simulacri. Diversamente, Giovanni Maria Angioy sta in penombra e per i più rimane soltanto la denominazione di una via in ogni centro isolano, per non parlare della battaglia di Sanluri dopo la quale pare non sia successo più nulla, mentre nei secoli della dominazione spagnola sono accaduti importanti avvenimenti e trasformazioni storiche, sociali, linguistiche e culturali che ancora ci portiamo dietro ma che facciamo finta di non vedere. Carlo Felice? Chiudende? Palabanda? Fusione perfetta? Su Connotu? Cocco Ortu? Miniere? Pratobello? Gramsci? Provate a chiederne in merito agli studenti sardi e ne sentirete delle belle. Provate a chiedere anche alle persone adulte il perché e il come siamo diventati “italiani” e 9 volte su 10 non vi sapranno rispondere. Siamo di fronte a un vuoto culturale e identitario spaventoso dove i percorsi storici sono trattati con l’approssimazione e la leggerezza che solitamente si dovrebbe riservare alle chiacchierate da bar dello sport.
Il problema non è soltanto scolastico ma piuttosto la conseguenza di decenni di sonnambulismo istituzionale. Basta riflettere sul fatto che nell’era dell’informazione al posto di studiare seriamente e attingere dalle numerosissime fonti storiche che abbiamo a portata di click, assistiamo impassibili alla vulgata dell’alimentazione di ulteriori miti da proporre in libri, cinema, rete e canali televisivi, che tendono a loro volta ad alimentare un sensazionalismo che di fondato ha veramente ben poco. Da Atlantide a quello sempreverde di pastori, banditi e balentes ai quali viene spesso attribuita una patente di ribellione sociale che storicamente non hanno mai avuto, ci piace gloriarci di leggenda, ammantarci di orgoglio isolano e gongolarci sulla fierezza che trasudiamo dalle foto dove indossiamo gli abiti dei nostri avi. Tutto questo chiaramente lo riflettiamo anche all’esterno, gettando benzina sul fuoco, su quei luoghi comuni che tanto ci fanno indignare a furor di popolo.
La stessa sorte è spettata alle iniziative relative a questa giornata storica. Salvo il dibattitto storico politico, talvolta aspro, aperto all’interno della variopinta galassia indipendentista e autonomista, il resto è andato via via scemando e anche il revival commemorativo si è ridotto sempre più fino a diventare il piccolo e incerto lumicino di oggi. Anche in questa edizione basterà cantare ‘Non potho reposare’ e ‘Procurad ‘e Moderare’ tutti assieme appassionatamente in streaming, complimentarci con la Dinamo Sassari che si fa ambasciatrice, rallegrarci per gli auguri dei calciatori del Cagliari e salutare cordialmente l’ennesima sterile edizione della Giornata del Popolo Sardo con gli studenti che stanno a casa, senza sapere neppure il perché e possono dedicarsi serenamente a TikTok e Play Station.
La Regione Sardegna e le istituzioni scolastiche dovrebbero seriamente impegnarsi a destinare energie e risorse per fare uscire la storia con la esse maiuscola e la cultura dal campo accademico e farla conoscere e studiare già nelle scuole e divulgarla maggiormente, in modo che si avvii un serio e critico percorso di conoscenza e comprensione del nostro passato e lo tolga una volta per tutte al sensazionalismo fantastorico che ultimamente va tanto di moda. Soltanto così anche una giornata come questa verrà vissuta e compresa pienamente e in tutto il suo valore. Quando smetteremo di essere turisti occasionali nel nostro passato e cominceremo ad abitarlo e a viverlo, un giorno, se lo vorremo, le statue e le targhe verranno giù da sé.