Un passato di gloria e allori quello di Stefano Tacconi, portiere che ha scritto una fetta importante di storia della Juventus, difendendo i pali della “vecchia signora” per nove stagioni di fila. Una storia di alti e bassi, come quella di ogni campione che si rispetti, consegnata agli almanacchi del calcio, che molti anni dopo, quando ormai il pallone è un ricordo sempre vivo ma parecchio lontano cambia improvvisamente con un aneurisma cerebrale che sconvolge radicalmente la sua vita. Nel libro autobiografico ‘L’Arte di Parare’ (Mondadori 2024), Stefano Tacconi parla della sua vita dividendola in due tempi, come una partita, spiegando che per non fare entrare in rete i tiri, che siano quelli di Zico, Falcão, Rumenigge e Maradona o quelli birbanti che talvolta la vita sa dare, serve sempre il coraggio. Lo racconterà oggi nella giornata d’apertura del LEI festival di Cagliari in compagnia della giornalista Simona Rolandi, appuntamento alle 19 al Teatro Doglio di via Logudoro 32 con ingresso libero.
Non c’è un terzo tempo nel gioco del calcio, anche se negli ultimi anni gli infiniti minuti di recupero concessi alla fine di alcune partite suggerirebbero il contrario. C’è nel rugby, certo, ma si gioca in un altro campo dove al posto dell’odore dell’erba si respira quello della birra e del barbecue. Quello di Stefano Tacconi è cominciato da poco, quando ha deciso di raccontare i due tempi della sua partita con la vita.
Il 13 maggio del 1953 è la data del fischio d’inizio in quel di Perugia e poi a Ponte Felcino in provincia di Spoleto, dove assieme ai fratelli gioca a pallone e sogna ammaliato dalla Grande Inter del “mago” Herrera, quella di Corso, Mazzola e Suarez, ma dal momento che è il più piccolo non può sfuggire al destino di ogni figlio minore, quello di finire in porta a prendersi le bordate in cortile. Sarà proprio la squadra milanese a interessarsi di lui quando è ancora un ragazzo ma dura poco, appena un anno, per poi cominciare la lunga gavetta sempre in prestito che lo porta ad Avellino dove esordisce finalmente in serie A il 14 settembre del 1980, il direttore d’orchestra è Louis Vinicio e il teatro è quello del glorioso Partenio, dove, contro quella che Gianni Brera definì “la più bella realtà del calcio di provincia della storia italiana”, sarebbero cadute anche le più forti squadre della serie A dell’epoca.
Il sogno di Stefano Tacconi è diventato realtà ma è solo all’inizio. Il 1983 è la Juventus che lo reclama e il compito non è dei più semplici, dovrà sostituire il leggendario Dino Zoff per il quale, dopo anni di più che onorata carriera, è arrivato il momento di appendere guanti e scarpette. La squadra bianconera, orfana anche di Bettega e intenta a leccarsi le ferite di Atene dove ha perso la finale di Coppa dei Campioni con l’Amburgo, è forgiata dai campioni reduci dal vittorioso mundial di Spagna 82 come Gentile, Scirea, Rossi e Tardelli e degli assi stranieri Platini e Boniek. I successi arrivano subito: scudetto e Coppa delle Coppe al primo anno, Coppa dei Campioni, Super Coppa d’Europa e Coppa Intercontinentale nel 1985 e un altro scudetto nel 1986.
Tuttavia anche i sogni presentano i conti e oltre alle cannonate dei bomber della serie A ,che proprio in quegli anni con la presenza di alcuni fra i migliori giocatori a livello internazionale come Diego Armando Maradona, Paulo Roberto Falcão, Zico, Karl-Heinz Rummenigge e tanti altri, sta diventando il “campionato più bello del mondo”, Stefano Tacconi deve far fronte anche alle cose che non vanno. In mezzo a tanta gloria c’è il rapporto non sempre idilliaco con Giovanni Trapattoni che spesso lo sostituisce con il vice Luciano Bodini, c’è la tragica notte dell’Heysel, il deteriorarsi dei rapporti con la società e le dichiarazioni sulla stampa che destavano imbarazzo e clamore.
La caduta degli dei è dietro l’angolo, la Juventus perde i pezzi pregiati ormai arrivati a fine carriera e cominciano gli anni difficili in casa bianconera. Tuttavia questo periodo coincide con gli anni dell’ ascesa per il portiere umbro che riesce a raggiungere anche la nazionale esordendo con Azeglio Vicini in panchina nel giugno del 1987. Ma anche qua il destino ha in serbo per lui un tiro beffardo. Il suo cammino per una maglia da titolare in azzurro si scontra col periodo d’oro di Walter Zenga che l’Inter aveva preferito qualche anno prima e che in quegli anni concorrerà più volte al premio Miglior portiere dell’anno a livello mondiale, il IFFHS World’s Best Goalkeeper, risultando primo per tre edizioni di fila. Un’altra delusione cocente? No, una rivalità accesa e gustosa, che i cronisti hanno spesso definito al limite dell’istrionismo, vissuta pubblicamente e sigillata da una profonda amicizia.
Gli ultimi anni alla Juventus riservano a Stefano Tacconi la fascia di capitano e altri due successi in Coppa Italia e Coppa Uefa. Il ritorno di Trapattoni e l’arrivo di Angelo Peruzzi segnano la fine della sua storia bianconera e l’avvio del tramonto della sua carriera professionale con l’addio al calcio a Genova, sponda rosso blu, nel dicembre del 1994.
L’avventura calcistica di Tacconi finisce qui. Pur continuando a seguire il calcio e la Juventus non ha interesse a percorrere una carriera da allenatore o dirigente e si dedica a tutt’altro, almeno fino a quel tragico 23 aprile 2022. Quel giorno il destino ha un altro conto da presentare, una bordata vestita da aneurisma cerebrale che rischia di stenderlo per sempre. Ma Stefano Tacconi appartiene a una razza coriacea e no, neppure stavolta è disposto a darla vinta a chi ha tirato, anche questa volta si fa trovare pronto, come nella finale di Coppa Intercontinentale del 1985 a Tokio contro i tiratori dei rigori dell’ Argentinos Junior, respinge coi pugni, devia in angolo e va a terra. Sarà durissima rialzarsi ma intanto il goal è stato negato e allora si può riprendere la partita con il secondo tempo. Come? Lo racconterà stasera al Teatro Doglio.