Un’impronta rimasta nascosta per 165 milioni di anni tra le rocce calcaree del Supramonte di Baunei, in Ogliastra, come testimonianza silenziosa di un tempo in cui la Sardegna era ben diversa da quella che conosciamo oggi. È qui che un anno fa, durante le riprese di un documentario prodotto dalla MGB, tre accademici — Antonio Assorgia, Sergio Ginesu e Stefania Sias — hanno identificato quella che ritengono essere una pista fossile lasciata da un dinosauro teropode, soprannominato “Bibi“. La notizia è stata resa pubblica l’11 aprile scorso durante una conferenza stampa a Sassari, alla presenza del paleontologo dell’Università di Sassari, Marco Zedda e del produttore Francesco Ginesu.

La creatura avrebbe camminato su sedimenti sabbiosi e fangosi in un’area costiera soggetta a maree, un ambiente che durante il Giurassico medio — circa 165 milioni di anni fa — aveva caratteristiche palustri. “Si tratta di una scoperta senza precedenti per l’isola ha affermato Stefania Sias, geomorfologa, “le orme appartengono senza dubbio a una fauna mesozoica”. Secondo il paleontologo Marco Zedda l’analisi delle impronte potrebbe consentire di ricostruire taglia, velocità e comportamento del teropode, un erbivoro stimato in lunghezza tra i 120 e i 160 centimetri.
Tuttavia la notizia non ha tardato a suscitare reazioni contrastanti nel mondo accademico. Paleontologi come Luigi Sanciu e Daniel Zoboli hanno espresso perplessità sull’interpretazione dei dati. Secondo loro, la mancanza di una pubblicazione scientifica peer-reviewed e l’assenza di confronto con la comunità internazionale rappresentano un limite metodologico. “Dalle immagini disponibili si evincono strutture che somigliano più a forme di erosione superficiale del calcare che a vere impronte fossili”, dichiara Sanciu, direttore del polo naturalistico di Masullas, all’Ansa. Zoboli, ex ricercatore e docente, attualmente funzionario dei musei dell’Università di Cagliari, sottolinea invece i rischi legati alla divulgazione prematura: “La paleoicnologia richiede una grande attenzione ai dettagli. Le rocce coinvolte mostrano morfologie potenzialmente riconducibili a processi carsici, facilmente fraintendibili”.
Lo abbiamo intervistato per comprendere meglio la vicenda.
Lei ha sottolineato l’importanza della prudenza nella comunicazione scientifica, specie in assenza di una pubblicazione peer-reviewed. Secondo lei quali rischi concreti comporta una divulgazione prematura come quella del caso “Bibi”?
La divulgazione delle notizie di natura scientifica è un argomento molto delicato, specialmente coi tempi che corrono, dove a inesattezze di vario genere e pressapochismo si aggiungono le famigerate fake news. Per quel che riguarda il “caso Bibi”, penso che la notizia sia stata data con troppa fretta e leggerezza, forse alimentata da un eccessivo entusiasmo da parte delle persone coinvolte. Il problema principale risiede dunque nella modalità, oserei dire un po’ “avventata”, in cui è stata diffusa la notizia. Molto spesso il pubblico generalista è attratto e recepisce solo le “notizie bomba”, mentre le eventuali smentite passano in sordina, o peggio, non vengono comunicate in via ufficiale. C’è dunque il rischio che alcune informazioni errate si diffondano a macchia d’olio per poi tramutarsi in verità assodate nelle menti dei “più distratti”. Per fare un esempio nostrano, diversi anni fa, una falange di avvoltoio ritrovata nella Grotta di Nurighe (Cheremule) era stata erroneamente scambiata per una falange di ominide a cui addirittura fu dato il nomignolo “Nur”. Nonostante siano passati tanti anni, ancora oggi esiste chi crede che “Nur” sia il resto fossile di ominide più antico ritrovato in Sardegna. Il pericolo concreto è dunque quello di creare disinformazione.

Le morfologie osservate sono state attribuite dagli scopritori a un dinosauro del Giurassico medio, ma lei e altri studiosi avete parlato di forme di erosione carsica. Quali sono gli elementi chiave che distinguono inequivocabilmente un’impronta fossile da una forma geologica di origine naturale?
La natura biologica e dinosauriana delle presunte tracce mostrate in rete tramite fotografie e video è stata lecitamente messa in dubbio dai geologi e paleontologi sardi e di oltre Tirreno, in particolare da quei paleontologi che si occupano di dinosauri o che sono specializzati nello studio delle loro tracce. Per
aumentare la confusione, la presunta impronta di “Bibi” è stata riferita sia a un teropode (gruppo di dinosauri di cui fa parte il famosissimo Tyrannosaurus rex) che a un ornitopode (con tanto di certa attribuzione all’icnogenere Anomoepus). Come ho riportato in altre occasioni, al momento non ho ancora avuto modo di esaminare personalmente queste presunte impronte, dunque posso basarmi esclusivamente su quanto è stato mostrato dai media. Da quello che abbiamo visto, sia io che persone ben più preparate di me in materia (io non studio dinosauri), quelle che sono state scambiate per tracce fossili sono con molta probabilità morfologie legate all’erosione e in particolare al carsismo superficiale. Le rocce carbonatiche possono essere infatti modellate da questo fenomeno naturale che può dare origine a forme di vario genere quali ad esempio le vaschette di corrosione. Se poi aggiungiamo un po’ di inesperienza e un pizzico di fantasia, anche l’occhio può essere ingannato a causa del fenomeno percettivo noto come pareidolia. Io stesso, in diverse occasioni, mi sono imbattuto in morfologie dovute al carsismo che ricordavano impronte di dinosauro, ben più chiare di quella soprannominata “Bibi”. Per avere la certezza che si tratti di impronte dobbiamo prima di tutto essere sicuri di avere a che fare con una superficie di calpestio fossile, dobbiamo inoltre essere molto cauti davanti a impronte poco “leggibili” o isolate e che dunque non possono essere indicative del sicuro passaggio di un animale. Possiamo inoltre individuare impronte anche in superfici che “spezzano” ortogonalmente la stratificazione della roccia. In questo caso il passaggio dell’animale non è visibile come impronta ma attraverso la deformazione degli straterelli di sedimento che si trovano appena sotto la superficie di calpestio e dal sedimento che ha successivamente riempito l’impronta stessa. Esiste dunque una grande varietà di caratteristiche che il paleontologo deve saper cogliere per non cadere in errore.
A suo avviso, come si sarebbe potuto gestire diversamente il processo di validazione e comunicazione della scoperta per evitare equivoci e reazioni polarizzate all’interno della comunità scientifica e dell’opinione pubblica?
Se non si è esperti di uno specifico argomento, ma si vuole comunque intraprendere un determinato studio, la prima cosa logica e saggia da fare è quella di chiedere un parere o meglio la collaborazione di uno specialista in materia, cosa che nel caso di “Bibi” pare essere stata fatta. Se si è in possesso di conoscenze adeguate e si è sicuri di quello che si ha tra le mani, si può procedere con l’acquisizione dei dati di terreno, consultare una ricca bibliografia sul tema, procedere con l’elaborazione dei dati, scrivere un articolo, inviarlo a una rivista specializzata nell’argomento oggetto dello studio (stando molto attenti all’affidabilità della rivista), attendere i pareri dei vari specialisti scelti dall’editore come revisori, aspettare l’accettazione e dunque la pubblicazione dei risultati e, per finire, divulgare la pubblicazione del lavoro attraverso i vari mezzi di comunicazione di massa quali internet, la carta stampata o la televisione. Nel caso di “Bibi”, al momento è stato fatto solo quest’ultimo passaggio e non esiste nessuna pubblicazione scientifica che ne certifichi la reale natura, dunque per la scienza “Bibi” di fatto non esiste. Quando e se gli autori della scoperta pubblicheranno il loro studio in una rivista di settore seria e di comprovata attendibilità e che ha eseguito una corretta procedura di revisione svolta da paleoicnologi specializzati in impronte di dinosauro, si potrà finalmente parlare di dinosauri in Sardegna. Detto questo, a prescindere dalla reale natura delle cavità presenti nel blocco di roccia di Baunei, l’approccio avuto con questa ipotetica scoperta non è quello che normalmente si dovrebbe avere.
Nel caso in cui nuove analisi, condotte con rigore metodologico, confermassero l’origine biologica delle tracce, quale sarebbe l’impatto di una simile scoperta sulla paleontologia sarda e mediterranea? È lecito mantenere uno spiraglio aperto all’ipotesi “Bibi”?
Tracce di dinosauri sono note in tutto il pianeta, dunque l’eventuale scoperta di impronte di questi animali preistorici in Sardegna avrebbe una rilevanza prettamente regionale. Dunque un piccolo passo (in questo caso impronta) in avanti per quel che riguarda il registro fossile isolano. Impronte di dinosauri sono state ritrovate in diverse regioni dell’Italia peninsulare come ad esempio Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Toscana, Lazio e Puglia, pertanto è del tutto plausibile e auspicabile che in futuro queste saranno scoperte anche in Sardegna. La verità dietro “Bibi” la può raccontare solo uno studio scientifico condotto in maniera serie e rigorosa, senza di questo non possiamo parlare di scienza. Nel frattempo, sono sicuro che tutta la comunità scientifica interessata a questo tema rimarrà in trepidante attesa dei risultati della ricerca che gli autori hanno affermato di portare avanti.
Nel dibattito emerso intorno a “Bibi”, si è parlato anche del ruolo della paleoicnologia e della sua complessità. Quali competenze specifiche ritiene fondamentali per affrontare uno studio accurato di questo tipo?
La paleoicnologia si occupa dello studio delle tracce fossili (icnofossili). Questa disciplina è molto affascinante perché testimonia in maniera diretta attimi di vita degli animali del passato e può fornirci interessanti informazioni a riguardo. Solitamente le impronte fossili, non solo quelle di dinosauro, si trovano su superfici di strato generalmente tabulari e che costituivano l’antica superficie di calpestio su cui si spostavano gli animali, ad esempio una piana di marea o in prossimità di una laguna. Il sedimento, ad esempio fango o sabbia, viene deformato dal peso dell’animale e se le condizioni sono ottimali questo si trasformerà in roccia arrivando sino ai nostri giorni. Nel registro fossile esiste una enorme varietà di morfologie di impronte legate sia al tipo di animale che le ha impresse che alla natura del sedimento e al suo grado di umidità. Per sintetizzare, uno stesso tipo di animale può ad esempio lasciare diversi tipi di impronte a seconda della natura del substrato su cui si sposta e, allo stesso tempo, animali diversi possono lasciare impronte molto simili se non del tutto identiche tra loro. Se si vogliono intraprendere studi paleoicnologici, oltre a conoscenze specifiche sulla morfologia delle impronte, è indispensabile avere adeguate competenze geologiche, specialmente nel campo della sedimentologia.
Lei ha definito “molto pericoloso” comunicare una scoperta non ancora vagliata da esperti del settore. In un’epoca in cui la comunicazione scientifica passa anche dai media e dai social, qual è, secondo lei, il confine etico tra divulgazione, entusiasmo e rigore accademico?
Chi fa ricerca e divulgazione scientifica sa bene che deve scontrarsi quotidianamente con la disinformazione. Saper filtrare le informazioni corrette durante lo svolgimento di uno studio a volte può rivelarsi complicato anche per un ricercatore, figuriamoci per le persone che non hanno una formazione scientifica adeguata che apprendono le informazioni dai media generalisti. Il mondo dei media e dei social è estremamente variegato, esistono pagine e blog che trattano la divulgazione scientifica in maniera rigorosa e altre che invece sembrano essere nate appositamente per disinformare. Talvolta, può capitare che i media generalisti si approccino in maniera incauta ad argomenti scientifici alla ricerca del puro sensazionalismo o cavalcando l’entusiasmo per un possibile scoop. Purtroppo esistono innumerevoli casi in cui le responsabilità non sono totalmente a carico dei giornalisti. Basta ricordare anche casi recentissimi, come la notizia della de-estinzione del meta-lupo. Se noi ricercatori, anche se in buonafede, forniamo informazioni potenzialmente errate ai giornalisti, diventiamo noi stessi a tutti gli effetti complici di un caos che con un pizzico di attenzione in più si potrebbe evitare. La puerile rincorsa al sensazionalismo nella ricerca può rivelarsi controproducente e deleteria nell’ottica di una corretta e sana diffusione del pensiero scientifico.