Quando il 16 gennaio si svegliano le tenebre, la Sardegna si stringe intorno a una tradizione che affonda le sue radici nel cammino degli antenati. Così, nell’intrecciarsi di culti pagani e cristiani, i fuochi in onore di Sant’Antonio abate divampano e – in un perfetto sincretismo – si mescolano con riti che celebrano l’infinita ruota dei cicli naturali annunciando, inoltre, l’inizio del Carnevale sardo.
Le festività legate a quest’ultimo sono molto più di una semplice ricorrenza ed esprimono le peculiarità dell’isola con il suo vastissimo bagaglio culturale. Ma nell’era della globalizzazione è possibile preservare le tradizioni dalla delocalizzazione e dalla destagionalizzazione? È possibile ritornare a su connotu? La risposta è sì e Siniscola ne è un esempio: nella cittadina baroniese, infatti, l’associazione S’Orcu ‘e Montiarvu ha portato avanti un certosino lavoro di ricerca focalizzato sullo studio e sulla ricostruzione storico-sociale di una maschera tradizionale: quella de s’Orcu, appunto. Riportato in auge e restituito alla collettività insieme a quei frammenti di memoria che sembravano perduti, su Carrasecare anticu (dove sfilano anche altre quattro maschere a s’Orcu collegate) è uno dei simboli della riappropriazione comunitaria. Ne abbiamo parlato con gli associati in occasione della quinta edizione della manifestazione.
Come e quando avete recuperato la maschera de s’Orcu, e sulla base di quali studi?
Da sempre siamo appassionati di storia e di tradizioni del nostro paese, ma è nel 2018 che abbiamo deciso di approfondire in maniera decisa la parte legata al nostro carnevale. In uno studio che si è mosso principalmente su due strade. Una è stata la ricerca bibliografica, con la consultazione di testi come i classici della mitologia greca e romana, il dizionario storico e geografico della Sardegna Angius-Casalis e infine gli scritti e le tesi di studiosi del settore come Dolores Turchi e Pierina Moretti, solo per citarne alcuni. L’altra strada è stata la trasmissione orale con le interviste agli anziani del paese, la nostra memoria storica. Tutto ciò ci ha permesso di avere un racconto della rappresentazione in epoca relativamente recente, ma soprattutto di immagazzinare informazioni su miti e leggende del passato, tramandati di generazione in generazione. Tutti questi tasselli ci hanno fatto avere un quadro più completo e una narrazione ben strutturata.
S’Orcu è la figura centrale della rappresentazione, volete parlarcene?
Sì, è la grande metafora della natura che manifesta tutta la sua inclemenza sull’uomo, che a sua volta cerca di esorcizzarla e domarla. Dapprima con una lunga passione, per poi farla capitolare tramite la sua uccisione a metà strada tra rito esorcizzante e sacrificio propiziatorio. Al suo mito è legato il sito ipogeico nuragico situato tra le falesie del Montalbo ‘Sa Prejone e S’Orcu’. Pur con le dovute cautele, sì può ascrivere il toponimo al mito di Orcus, divinità romana di origine etrusca preposta agli inferi e associata a Dite, dio del sottosuolo. Una figura orrorifica associata al male e alla negatività, alla lotta ciclica tra l’uomo e la natura, al bene contro il male, alla primavera contro l’inverno. Questo è il filo conduttore del Carrasecare: morte e rinascita, la rappresentazione figurata del ciclo della natura che, appunto, muore in inverno per rinascere in primavera.
Quali sono le altre maschere del vostro Carrasecare?
Ci sono altre figure che completano il rito e accompagnano S’Orcu durante il suo cammino di morte e portano i segni distintivi della vita terrena: sia con la gestualità, sia con la loro funzione apotropaica; ma soprattutto con gli abiti da lutto. Quello maschile con su gabanu de uresi (cappotto d’orbace) per su Guardianu, e s’istire ‘e Gatia (vestito da vedova) per su Tintinnatu. Questo va a confermare il rapporto viscerale millenario tra essere umano e natura. Sa Partorja (la partoriente) ha invece un ruolo ambivalente e rappresenta a pieno il significato principale del Carrasecare. Anche lei porta gli abiti da lutto femminile, piangendo la morte della bestia (natura), ma al contempo porta in grembo il simbolo di una nuova vita che dovrà nascere. Chiude infine il carnevale un’altra figura mitologica che è su Voe Jacu (uno dei tanti nomi del diavolo). La figura, molto temuta dai siniscolesi, è già citata nell’Angius-Casalis (1833): qui veniva descritto come un uomo invasato e che di notte si trasformava in bue trainando un carro carico di anime e che muggiva davanti alle case delle persone che sarebbero dovute morire entro l’anno. Era il presagio di una morte futura, che per l’appunto avviene a chiusura della rappresentazione, raccontandone tutti i segni della luttuosità che ne conseguono. Questa è la grande differenza tra il carnevale allegorico e il carnevale tradizionale. All’allegoria, allo scherzo, al divertimento, si contrappone una rappresentazione cruda, triste, agreste e luttuosa che caratterizza il carnevale tradizionale.
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Cosa avete prodotto di anno in anno, e quali sono le differenze da un’edizione all’altra?
A parte la rappresentazione in sé, abbiamo sempre cercato di dare spazio ad altre tematiche culturali che potessero raccontare la storia dei luoghi dove i miti, le leggende e tali rappresentazioni sono nate. Raccontandone diverse sfaccettature. Questo è l’intento di base delle nostre attività. Fare emergere il nostro bagaglio storico, raccontarlo e cercare di contribuire a tutelarlo. Siamo cresciuti con l’organizzazione, arricchendo di anno in anno nuove attività che hanno incluso al loro interno dai più piccini, con recite e giochi tradizionali, ai più grandi, con dibattiti sulle peculiarità del nostro territorio. Nelle manifestazioni da noi organizzate è centrale l’elemento storico che si confronta con il presente e questa sarà sempre una costante nella costruzione di future iniziative. In maniera che tutte le attività proposte non rinneghino mai le proprie radici.
Che tipo di risposta avete avuto dalla comunità e dalle altre realtà attive nel territorio?
Come tutte le novità, all’inizio c’è sempre un po’ di scetticismo. Ma con il passare degli anni in paese hanno potuto vedere come un gruppo di ragazzi si sia dato da fare per costruire una realtà che parla di storia, cultura, lingua madre e valorizzazione del territorio. Ma soprattutto un’associazione che, avendo l’onore di rappresentare un patrimonio di tutta la comunità, è inclusiva e apre le porte a nuovi associati e ad altre realtà con le quali si possa portare avanti un percorso culturale comune legato alla tradizione. In passato abbiamo già collaborato con diverse associazioni durante le nostre manifestazioni, una su tutte il Coro Montalbo, con il quale siamo al secondo anno consecutivo di cooperazione nell’organizzazione del dibattito inserito nell’evento del carnevale. Un’altra associazione che ci accompagna ormai da due anni è il gruppo folk La Caletta, gruppo di sole donne unite dalla passione per le tradizioni siniscolesi. In più ci saranno nuovi sodalizi come accadrà quest’anno con il gruppo Pinna e Tinteri (Ufítziu Limba Sarda), che si occuperà della costruzione dell’ottava poetica con il pubblico presente, e l’associazione IDEAS, con una interessante mostra sull’emigrazione in Belgio. Tutte associazioni operanti sul territorio, con le quali portiamo avanti la stessa passione per la valorizzazione delle tradizioni.
Quali sono i vostri punti fermi in riferimento al rispetto della tradizione del carnevale sardo?
Quando abbiamo deciso di ufficializzare la nostra associazione abbiamo redatto uno statuto che di punti fermi ne ha più di uno. Tra i tanti c’è quello di rappresentare il rito agrario unicamente nel suo luogo di origine e nella sola giornata di carnevale. Questo perché rappresentiamo qualcosa che non si può vendere, non è un prodotto di un supermercato al quale si può dare un prezzo. Sono rituali che tolti dal proprio contesto vanno a snaturare il senso della rappresentazione. Ormai è carnevale tutto l’anno, nelle spiagge, nei centri commerciali, nelle località balneari, nelle sagre, adesso anche nei campi di calcio. Sono riti agrari che sono apparsi tra i popoli del Mediterraneo migliaia di anni fa, nessuno dovrebbe sentirsi in diritto di svenderli in ogni luogo e tempo per due spiccioli. Per questo chi avrà piacere di vedere il Carrasecare Thiniscolesu lo potrà fare solo durante l’unica giornata di carnevale e solo nel paese di Siniscola. Per noi questo è il modo migliore di rispettare la nostra storia e la nostra dignità.
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