Ogni luogo del mondo soffre di quella sottile malattia, e neanche tanto sottile a ben guardare, che si chiama nazionalismo. C’è sempre questa corsa al mantenere intatte le tradizioni, rispettare le feste e autocelebrarsi ribadendo la propria inflessibile unicità.
La questione dell’identità è la questione del nostro tempo. Da un lato l’evoluzione delle cose che, fluida, rincorre il futuro seguendo il corso naturale della storia e delle umane vicende, arricchendosi di contaminazioni che in certi contesti approviamo e in altri condanniamo, a seconda di quello che ci conviene e dall’altra parte invece c’è chi si irrigidisce, chi si sente depositario di un’identità intoccabile, incorruttibile e immutabile nel tempo e nello spazio. Custodi di qualcosa di così prezioso da doverlo proteggere ad ogni costo dalle terribili minacce del mondo.
Pensiamo alle nostre amate maschere del carnevale barbaricino, un vero esempio di resistenza al tempo che passa, alle mode e alle influenze esterne. A meno che…
A meno che, per dire, non si decida di chiudere gli occhi sulla stagionalità per regalare ai turisti un bello spettacolo a luglio davanti ai croceristi appena sbarcati al porto di Cagliari. Che cosa curiosa, faranno tante foto, che pubblicità per la nostra isola!
Non mi pare che il Carnevale di Venezia venga spostato a luglio o altro mese in favore dei fotografi e parte della magia di quell’evento risiede, come ogni vera tradizione che si rispetti, nella sua autenticità. La danza dei mamuthones, per esempio, segna il passaggio dall’inverno alla primavera, è un rito primordiale che chiede alla natura di risvegliarsi ed essere prodiga di frutti nella prossima stagione. Se sfilassero a luglio, dato il problema della siccità, potremmo al massimo sperare che convertano i movimenti per evocare la pioggia. E la danza per la pioggia mi fa venire in mente la partecipazione dei merdules, altra maschera storica e bellissima della tradizione sarda, alle recenti celebrazioni per il Columbus day a New York.
Per quale motivo sia appetibile esibirsi a New York, fuori stagione e fuori contesto, mi è oscuro. Meno oscuro mi è invece il fatto che da un punto di vista etico partecipare a una festa che di fatto sancisce l’arrivo dei conquistadores che hanno massacrato i nativi americani e usurpato le loro terre rendendoli delle macchiette rinchiuse in poche riserve sparse per il continente, sia estremamente discutibile.
Potrei capire una mostra, uno spaccato autentico e curato di quel mondo dal retaggio antichissimo assolutamente ancora pieno di mistero. O la proiezione di un documentario sul tema che svolge la stessa funzione antropologica e sociologica: raccontare una realtà lontana. Abbiamo persone di grandissima capacità per quanto riguarda la curatela di eventi di respiro internazionale e altrettanti esperti pluripremiati per l’audiovisivo che sarebbero perfettamente in grado di raccontare con eleganza e perizia il mondo del carnevale sardo senza snaturarlo ad un pubblico straniero.
Questo per me ha valore, suscita curiosità, promuove una cultura veramente unica. La sfilata fuori stagione, stile saldi no.
Tutto questo orgoglio allora dove sta? Nei racconti per i turisti? Nelle frasi fatte che ci definiscono un popolo fiero e generoso? Nelle nostre acque cristalline e incontaminate (che incontaminate non sono)? Nei paesaggi mozzafiato o in qualche altra triste espressione che ci irrita se detta dagli altri ma che con comportamenti come questi incrementiamo e consolidiamo?
Insomma, la nostra identità è sacra…a meno che…
(nella foto di Gianni Careddu da Wikipedia Boes e Merdules di Ottana)