Nanneddu meu, su mundu est gai, a sicut erat, non torrat mai.
Da decenni, spesso senza soffermarsi sufficientemente sul significato dei versi, sardi e forestieri cantano allegramente queste e altre liriche dello Scapigliato di Barbagia, che forse per loro vivace musicalità risultano ai più, giocose e spensierate. Basterebbe però leggerle con più attenzione, contestualizzandole in quell’epoca che per la maggioranza delle persone di Belle aveva soltanto il nome, per comprendere che sotto una maschera gioviale quelle parole di scherno sono impregnate di mestizia, amarezza e disgusto universale.
Le cronache narrano che Peppino Mereu, di Giuseppe medico condotto di Tonara e della cagliaritana Angiolina Zedda, sesto di otto figli, venne al mondo nella casa al civico 18 della contrada detta di San Giuseppe a Funtana ‘e Idda, nella parte bassa del rione di Arasulè, mentre il fischio desolato del vento si mischiava al latrato di un cane sofferente. Erano le quattro ante meridiane del 14 gennaio del 1872 e quella gelida tempesta suonava come un funesto presagio, volendo quasi annunciare che il triste concerto di quella notte lo avrebbe accompagnato per tutto il corso della sua breve esistenza.
La precoce perdita dei genitori, l’inquietudine sotto l’arma benemerita dove mal tollerava il rigore e la disciplina della severa vita militare, l’amore non corrisposto e i problemi di salute che lo colpirono ancora in giovane età furono il “pentagramma sul quale si incisero a fuoco quelle tristi note che seguitarono a suonare fino all’ultimo dei suoi giorni”. Note, che come ebbe a dire il suo amico più caro, il dottor Giovanni Sulis, – il celeberrimo Nanneddu Meu che si onorò dei suoi versi e che di nascosto da Peppino si prese la briga di far pubblicare il suo primo volume di poesie nel 1897 – talvolta, “nella loro tragicità eschilea, stillavano gocce di sangue, facendo veramente vibrare le corde della passione e del dolore”.
Poco prima di morire, Nanneddu lasciò una sorta di monito testamentario, speranzoso di conservare e perpetuare l’opera del Mereu, scrivendo: “Peppino fu un ingegno limpido e chiaro, che si allontanò dalla schiera dei poeti vernacolari del suo tempo; fu uno spirito di eccezionale finezza e di signorile arguzia, confidente in se medesimo mostrò nuove vie alla sarda poesia. È da augurarsi, perciò, che nei cuori giovanili, si faccia strada il convincimento di collezionare, raccogliere e curare la pubblicazione degli scritti editi ed inediti dell’autore affinché la sua nobile figura, si erga nei cieli luminosi di Barbagia, per essere sempre presente alla mente e al cuore delle venture generazioni, che questo tempo chiameranno antico”.
La vasta popolarità della quale ancora oggi godono queste poesie sono la positiva risposta all’auspicio del dottor Sulis. Ma forse, veramente, dovremmo tutti leggere quei versi meno scanzonatamente, prestando maggiore attenzione alla loro sconfinata bellezza che ci racconta un epoca difficile e lontana, ma per come vanno le cose nel mondo d’oggi, anche alla loro terribile e sconcertante attualità.
Peppino Mereu, consumato, per usare le sue parole, come una candela di cera, si spense fra le braccia del suo amico la sera dell’undici marzo del 1901. Aveva appena compiuto 29 anni.
Si congedò dai vivi con le ultime amare parole del suo ‘Testamentu’: “E como a sos istremos de sa vida, pro ricupensa de s’attu villanu, bos do sa tremenda dispedida, Peppe Mereu bos toccat sa manu”.
Peppino Mereu, un uomo Sardo e libero, non rispettato però e … disuguale per molti sardi e per l’Italia intera, che non lo conosce e non vuole conoscerlo, estraneo al suo “patrimonio” e non solo “poetico e letterario”.
Grandezza unica!!!!!!