Dopo le hit dell’estate che sappiamo benissimo a cosa servono l’unico modo per salvarci è attingere a piene mani da un album non certamente concepito per questa stagione afosa e contemporaneamente fresco e notturno, ovvero l’unico mix concepibile per chi sta tentando di evitare con la massima scaltrezza tutto ciò propinato dalle radio, soprattutto se fintamente indie, fintamente di nicchia, palesemente copia di mille riassunti, destinato al massimo a magazine patinati che sopravvivono a furia di “grattate” come direbbe un lucido Guè, con in aggiunta live orrendamente organizzati e spaventosamente costosi.
Robert Smith in persona, quasi come lustri fa in South Park, viene in nostro aiuto, non da solo, ma con una squadra di pesi massimi dell’elite mondiale, per regalarci ventiquattro tracce di remix del precedente album ‘Songs of A Lost World’, del quale avevamo già tessuto le lodi qui.
A mia memoria e non solo è la prima volta che la band del nostro eroe (perché lo è, veramente) si cimenta in un disco di remix, e, se la cosa in sé non desta scalpore, il primo riferimento che però non può non far capolino come rischioso paragone è la mastodontica opera invece realizzata dai Depeche Mode.
Perché il paragone è importante, la band di Basildon arrivò alle antologie di remix dopo alcuni anni di carriera, reimpacchettando il tutto in diversi volumi poi riproposti, riorganizzati e arricchiti di lustro in lustri e che, ogni volta, comprendevano diversi album, praticando la giusta selezione tra il mainstream e il non, proponendo diverse versioni ma tenendo sempre ampia la selezione e la varietà.
In questo caso è totalmente diverso, tralasciando la natura nobile del lavoro – i profitti dell’album sono devoluti all’associazione benefica Warchild – ci ritroviamo di fronte ad un buon album di otto canzoni quale era SOALW che diventa ora una collezione di ventiquattro remix, dalle stesse parole di Robert Smith, infatti:
“Subito dopo Natale, ho ricevuto un paio di remix non richiesti di brani di Songs Of A Lost World e li ho adorati. I Cure hanno una storia variegata con tutti i generi di musica dance, ed ero curioso di sapere come sarebbe suonato l’intero album se fosse stato completamente reinterpretato da altri. Questa curiosità si è tradotta in un favoloso viaggio attraverso tutte le otto canzoni di 24 meravigliosi artisti e remixer, ben oltre qualsiasi cosa potessi sperare. Donare i diritti d’autore del progetto a War Child contribuisce a rendere Mixes Of A Lost World un’uscita ancora più speciale.”
Pro e contro dell’operazione al netto della nobiltà d’animo della band: MOALW diventa un monolite di cinematografica memoria, inascoltabile in una unica sessione dall’inizio alla fine, in cui è necessario invece praticare la nobile arte dell’ascolto a rate, chirurgico, randomico, serializzato e curioso, saltando dall’elettronica più minimal in cui la voce di Robert Smith si tramuta in una eco lontana a rimembranze EDM ‘90s, magari ogni volta scegliendo utilizzando dei dadi o una tavoletta da film adolescenziale americano.
MOALW è album in cui ci si ritrova più attratti da chi remixa che da cosa è remixato, in cui di sicuro chi vince senza esitazione è Four Tet – senza tralasciare Chino Moreno, Trentemøller e i Joycut – ma che rischia di auto oscurarsi a causa del suo gigantismo, soprattutto in un’ epoca in cui le uscite discografiche assomigliano ad una pioggia di meteoriti senza scampo per chi come MOALW necessità di svariate sessioni di ascolto.
E allora, piccolo appello: via le mode del momento, i proclami, al loro posto meglio una traccia di MOALW tutti i giorni, per riscoprire il mondo perduto dei The Cure da diverse prospettive, sensibilità, angolazioni.
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