Titolo che va dritto verso il bersaglio, sono passati “solo” sedici anni dall’ultimo ‘4:13’ e venti dall’album omonimo prodotto, si non lo ricordiamo male, da Ross Robinson, manco fosse un set di growl di Slipknotiana o Korniana memoria, o percussioni tribali a la ‘Roots’ o deliri industrial lancinanti a la ‘Fear Factory’.
Di questi ultimi sedici anni sicuramente ricorderemo le date live in cui alcuni brani venivano presentati a sorpresa, le dichiarazioni scarne a partire dal 2019, e a volte fuorvianti, il rischio che questo album poi però non esistesse nemmeno, le ultime settimane in cui tutto ha iniziato a diventare realtà, come già descritto qua e qua – nel nostro cammino verso ‘Songs Of A Lost World’.
Ma ormai non c’è più tempo da perdere, solo interruzioni esterne da evitare, quattro mura per proteggerci, un tasto play da cliccare, un vinile da far girare, una colonna sonora per cura da questo mondo forse non perduto ma di sicuro non nella sua migliore condizione.
Un mondo che in questi sedici anni ha fatto in tempo a cambiare un centinaio di volte almeno, un’era fa ormai, dove convivono svariate generazioni che si susseguono sovrastandosi non amichevolmente una sull’altra e su cui tutte almeno sovrasta l’aura placida dell’ immortale Robert Smith ed il quasi Simon Gallup, in termini di presenza costante nella band, che, insieme a Jason Cooper, Roger O’Donnell, Reeves Gabrels e Perry Bamonte confezionano un album monolitico ma non pesante, un’opera d’arte di soli 49 minuti e otto canzoni che però riesce a diventare eterno ed infinito quasi come se celasse al suo interno delle falle spazio temporali in cui veramente comprendiamo a fondo lo spirito del “naufragar ci è dolce”.
SOALW si rivela un barile colmo di pece in cui gallegiamo ed affondiamo allo stesso modo, cullati nel moto circolare e tridimensionale delle onde, in cui ‘Alone’ dà il primo segnale e poi siamo semplicemente noi a far esplodere le nostre emozioni nella successiva discesa, discesa che termina con la già ben conosciuta ‘Endsong’ – suonata già live insieme a gran parte dell’album – ma che finalmente ne assaporiamo la lunghissima bellezza da studio. SOALW è il lavoro che giustamente Robert Smith può donarci arrivato ormai ai suoi circa sessantacinque anni, in cui I lutti ‘I Can Never Say Goodbye’, il perenne dolore ‘And Nothing Is Forever’, lo spaesamento e la tentata quotidiana accettazione di sé ‘All’ I Ever Am’ formano una costellazione oscura.
Mancano totalmente piccoli accenni più leggeri, di quel pop di cui i Cure son sempre stati maestri come a volerci avvertire che ora non c’è niente di cui poter gioire perché il mondo è, ormai, perduto.
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