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Gli Iron Maiden celebrano 50 anni di carriera. A Budapest la prima data del “Run For Your Lives World Tour”

Di Maurizio Pretta
31/05/2025
in Arte, Musica e spettacolo
Tempo di lettura: 5 minuti
Gli Iron Maiden celebrano 50 anni di carriera. A Budapest la prima data del “Run For Your Lives World Tour”

C’era molta attesa per la prima serata della tournée della band capitanata da Steve Harris, non solo per il costante successo della loro dimensione live che attira sempre frotte di metallari, ma anche per la tematica del “Run for your LIves World Tour” attraverso il quale gli Iron Maiden si apprestano a festeggiare i loro cinquant’anni di carriera musicale. La scaletta prevede esclusivamente brani compresi nei primi nove album del gruppo, da Iron Maiden del 1980 sino a ‘Fear of the dark’ del 1992, ma la novità più importante sarà l’assenza, dopo 42 anni di ininterrotto servizio dietro piatti e tamburi, di Nico McBrain sostituito da Simon Dawson. Siamo stati al Papp László Sportaréna di Budapest dove abbiamo assistito al battesimo di fuoco del nuovo tour e vi raccontiamo le nostre impressioni su questo evento molto atteso da fans e appassionati.

Le note di ‘Doctor Doctor’, brano degli UFO dei quali i Maiden, almeno per la prima parte della loro carriera, sono ampiamente tributari sono il segnale inequivocabile che il tanto bramato concerto sta per cominciare, tuttavia spetta al fuori campo di ‘The Ides of March’ il compito di rompere ogni indugio e a fare da apripista a ‘Murders in the Rue Morgue‘, brano ispirato da una novella di Edgar Allan Poe, estratto da ‘Killers‘ del 1981 e che mancava in scaletta da vent’anni esatti. Ed è sempre al secondo disco dell’epoca del compianto Paul di Anno, scomparso nell’ottobre scorso, che la band si rifà assestando in sequenza ‘Wrathchild’ e la title track, suonata l’ultima volta nel 1999, con Eddie, l’iconica mascotte creata dalla matita di Derek Riggs, che fa la sua prima comparsa.

Eddie, l’iconica mascotte creata da Derek Riggs

Già dalle prime canzoni si capisce che il sestetto con Bruce Dickinson alla voce, Steve Harris al basso, Adrian Smith, Dave Murray e Janick Gers alle chitarre e il nuovo arrivato Simon Dawson alla batteria sono pronti a dare battaglia. Rispetto al passato, al posto dei solenni elementi scenografici tridimensionali, gli Iron Maiden si affidano ad animazioni proiettate su schermo con il cinematografo che dirotta il pubblico direttamente a teatro con ‘Phantom of the Opera‘, perla prog-metal del disco d’esordio ispirata al celebre romanzo di Gaston Leroux.

“Let him who has understanding reckon the number of the beast
For it is a human number. Its number is six hundred and sixty-six!” I versi dell”Apocalisse di Giovanni‘ declamati dalla voce di Barry Clayton e scanditi all’unisono dalla platea non danno adito ad alcun dubbio su quale sarà la canzone successiva, con le fiamme dell’inferno di “The Number of The Beast” a riportare tutti all’omonimo disco del 1982 che segnò l’esordio di Bruce Dickinson alla voce. ‘The Clairvoyant’ segna un lungo passo in avanti alla volta di ‘Seventh Son of a Seventh Son’ e mentre le ombre danzano sulle pareti il sudore comincia a scorrere veramente, ma non c’è tempo per rifiatare perché una grande piramide appare sullo schermo ed è un altro inequivocabile segnale.

‘Powerslave‘, per molti il miglior lavoro di sempre della band, viene servito con tre assi: la canzone che da il titolo all’album del 1984, l’orologio dell’apocalisse che segna l’imminente fine del mondo a causa di una guerra nucleare di ‘2 Minutes of midnight‘ e l’inattesa ‘Rime of the Ancient Marinar’, la lunga trasposizione in musica dell’epico poema marinaresco di Samuel Taylor Coleridge corredata dalle ottime immagini animate che scorrono sullo schermo trasportando il pubblico nel più nero degli abissi : “acqua, acqua, dappertutto e neanche una goccia da bere”.

Powerslave

‘Run To The Hills’ dovrebbe far presagire l’inizio di una cospicua e intensa cavalcata di hits sino alla fine delle danze, ma subito dopo arriva un altro pezzo inaspettato dai più e ‘Seventh Son of a Seventh Son’ rimanda tutti ai fasti del 1988. Seguono ‘The Trooper‘,con Dickinson che veste la consueta giubba rossa brandendo la union jack, ma anche il tricolore ungherese, con Eddie in compresenza che fa volteggiare la sciabola; ‘Hallowed Be Thy Name’ con il frontman intrappolato in una gabbia e una forca che risalta inquietante sullo schermo. Ad ‘Iron Maiden’ invece il compito di chiudere il gran galà della Vergine di Norimberga fra le fiamme e un tripudio di luci che fendono il blu elettrico:”Iron Maiden’s gonna get you”!

La voce di Winston Churchill annuncia che la battaglia non è ancora finita e il rombo di motori, l’urlo delle sirene e il fragore delle mitragliatrici comunicano che si sono alzati in volo gli assi dell’aviazione. Un boato accoglie ‘Fear Of The Dark’ e unanime si solleva il coro che accompagna Bruce Dickinson che si fa largo con la sua lanterna nell’oscurità schiarita da una gigantesca luna piena e lo sky line di un cimitero con la platea che si immerge fin all’ultima nota di quello che rimane a distanza di 30 anni l’ultimo inno generazionale di Harris e soci prima di esplodere ancora una volta con ‘Wasted Years‘, classico della band scritto a Adrian Smith per l’album ‘Somewhere in Time’. Così gli Iron Maiden si congedano dal pubblico della prima serata di Budapest, la seconda sarà l’indomani, e fanno calare il sipario sulla prima data del tour che proseguirà anche nel 2026.

Non era affatto facile condensare in due ore quarantacinque anni di storia discografica, i primi nove dischi della loro lunga carriera e affrontare un concerto con l’energia della gioventù per questi orami ex ragazzi prossimi ai settant’anni. Le facce all’uscita del Papp László Sportaréna suggeriscono che nonostante qualche sbavatura, qualche ingranaggio da oleare meglio e un Simon Dawson non ancora perfettamente incastonato in un meccanismo tutt’altro che semplice, la serata sia stata di quelle da incorniciare. Qualcuno magari si aspettava altri pezzi, c’è chi reclama ‘Infinite Dreams’ o ‘Afraid to Shot Stranger’, altri che lamentano l’assenza di brani estratti da ‘No Prayer for the Dying’, considerato a furor di popolo come uno dei peggiori lavori della band, ma il menù di 17 portate che è stato servito al gran ballo di Budapest ha veramente ben poco da farsi perdonare e ha dimostrato, sempre che ce ne fosse bisogno, che dal vivo gli Iron Maiden danno ancora punti a tanti altri gruppi, rimanendo, per distacco, la migliore band metal di sempre.

‘Seventh Son of a Seventh Son’

©Tutte le fotografie sono state gentilmente concesse da Veronica Sedda alla quale va il nostro ringraziamento

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