Esattamente dieci anni fa, Jacopo Incani, in arte Iosonouncane, scuoteva le fondamenta della musica italiana con l’uscita di “DIE”: un album che si ergeva come un monolite nel panorama sonoro nazionale, in bilico tra tradizione e avanguardia. Con quattro date sold out il 30 e 31 marzo, l’1 e il 3 aprile questo lavoro viene celebrato al Locomotiv di Bologna e, a distanza di un decennio, manifesta ancora la sua forza motrice.
La celebrazione di “DIE” in forma acustica ha assunto una dimensione radicale, simile a un’indagine archeologica di sé stessi, un ritorno alle origini, dove la nudità sonora distilla l’anima di ogni brano.
Il palco spoglio, la voce come unica guida
L’esibizione si apre con l’introduzione di Vieri Cervelli Montel, che prepara il pubblico all’ascolto, per poi lasciare spazio a una prima sezione dedicata ai lavori tratti dall’album ”La Macarena su Roma” e altre produzioni. ‘Il corpo del reato’, ‘Torino Pausa Pranzo’, ‘Sesto stato’ e ‘Giugno’ emergono in una veste nuova che ne amplifica la densità visionaria. Liberati dalle trame elettroniche degli originali, vivono di una rifulgente potenza espressiva, rilasciando la loro natura essenziale. L’arrangiamento minimalista, privo di sfumature computazionali, rivela la potenza della parola e la purezza delle melodie, enfatizzando la visione critica e profondamente umana che ha caratterizzato il percorso musicale di Iosonouncane. ‘Summer on a spiaggia affollata’, ‘Novembre’, un estratto da ‘Lirica Ucraina’ e ‘Viudas’ confermano che il vero punto di forza dell’artista sardo non si limita all’innovazione sonora, ma risiede anche nella sua capacità di rendere ogni tema affrontato un viaggio universale, che si tratti dell’esplorazione della solitudine, delle contraddizioni sociali o dell’intimità emotiva. Ogni composizione, in questa versione acustica, si trasforma in un’inviolata riflessione sull’esistenza e sulla condizione umana.
L’apice della serata esplode con l’introduzione di “DIE”, nella seconda parte del concerto. È il momento di lasciarsi avvolgere dalle atmosfere di ‘Tanca’, un brano che, privo delle sovrastrutture dell’album originale, acquisisce la forza di un canto rituale. La sua nuda interpretazione rivela la connessione pervasiva con la parola, evocando la poetica di Manlio Massole e Cesare Pavese, ma conservando una modernità disarmante. Qui non si tratta di una semplice esecuzione, ma di una riscrittura, di una decostruzione che svela la sommersione armonica e la tensione espressiva di ogni pezzo. La transizione verso ‘Stormi’ è fluida: il pezzo perde la sua spessa coltre sintetica, per trasformarsi in una litania ipnotica, un respiro che si espande nell’aria abbracciando il pubblico. In questa nuova forma, il suono si fa meditativo e ripetitivo, quasi trascendentale, in contrasto con il suo precedente battito elettronico. La stessa sensazione di sospensione caratterizza ‘Buio’, che riemerge in una confessione sussurrata, piena di tensione e intimità. Ogni nota appare levitante, sospesa nell’eterno presente. Con ‘Carne e Paesaggio’, la struttura di “DIE” si fa ancora più palpitante e tangibile, come se la dimensione acustica avesse dato a questi brani una maggiore organicità, avvicinandoli ulteriormente all’animo umano. In particolare, ‘Mandria’ si solleva come un punto di culminazione emotiva, una traccia che, pur nella sua apparente semplicità, comunica una potenza inaspettata.

Nel momento in cui tutto sembra volgere al termine, ecco un omaggio a Francesco De Gregori con ‘Giorno di pioggia’: una versione spoglia e carica di significato, dove l’intimità della voce restituisce la malinconia del cantautore romano. Poi, come un ultimo grido catartico, ‘Sacramento’ irrompe con la sua intensità brutale: la voce graffiante e le corde tese esprimono tutta la violenza e la bellezza di una confessione che scava nel profondo. La serata si conclude con una seconda esecuzione di ‘Stormi’, che si ripresenta come un mantra ossessivo: un ciclo che si rinnova con autentiche sfumature, un ritorno che non è mai uguale. L’ultima nota si dissolve lentamente, lasciando nell’aria un silenzio denso, ricolmo di emozioni e spunti di riflessione.
Nel 2015 il disco si impose come un punto di rottura col passato, grazie a liriche evocative e suoni che sembravano provenire tanto da un’epoca arcaica quanto da un futuro post-umano: il canto di un naufragio e di una rinascita, il battito pulsante di una memoria in cui il mare non è solo acqua, ma anche ricordo, paura e abbandono. In questa celebrazione dei dieci anni di “DIE”, il passato non è un peso, ma un dialogo continuo con il presente, una radice che si fa slancio. Il Locomotiv Club diventa un luogo sospeso, una bolla in cui il tempo si dissolve, lasciando spazio a una musica che si fa carne, rito ed esperienza.
Un’evoluzione costante e imprevedibile
Il percorso artistico di Iosonouncane ha costantemente sfidato le aspettative e le convenzioni. Dall’ironia graffiante e destrutturata de “La Macarena su Roma” (2010), alla complessità poliritmica di “IRA” (2021) (Gianluca Sacco ne parla qui), il musicista ha costruito un linguaggio che sfugge alle definizioni, ponendosi sempre al confine tra ricerca e istinto.
La sua attitudine sperimentale ha trovato ulteriore espressione in collaborazioni come quella con Paolo Angeli in ‘Jalitah’ (2023), che ha dato vita a un’esperienza d’ascolto unica. Inoltre, la sua musica ha segnato anche le colonne sonore di progetti come il documentario di Francesca Mannocchi ‘Lirica Ucraina’ (2025) (qui l’approfondimento di Francesca Arcadu), dove diventa uno strumento di impegno sociale e il film Berlinguer “La grande ambizione” (2024), diretto da Andrea Segre.
Forse è proprio questa la più grande forza di questo album e di Jacopo Incani: la capacità di trasformare ogni esecuzione in un nuovo battesimo, un frammento di tempo destinato a rifluire in chi ha avuto il privilegio di ascoltare.
Contributo fotografico di Stefano Caria