Dieci anni circa, un tempo memorabile per alcuni, per altri solo attimi persi nella quotidianità, nella banalità, nei giorni che passano senza senso prima di un atterraggio che, prima o poi, arriva sempre nella forma di schianto,
Altri, invece, in dieci anni compiono un percorso evolutivo sostanziale mantenendo inalterata la loro anima ma mutando la forma assumendo via via un contorno sempre più frastagliato, acuminato, oppure fluido e quasi impercettibile ai sensi per poi ritornare a colpire con forza come una pietra scagliata in uno stagno profondo, generando onde che si propagano per istanti dilatati nel tempo.
In dieci anni circa Jacopo Incani è stato in grado di stupirci prima con una album di canzonette fantastiche – “La Macarena su Roma” – in cui quasi fosse un Leprechaun sardo invece che irlandese urlava nell’etere testi di una intelligenza finissima su tessuti musicali incredibilmente ispirati, fatti di loop e chitarre acustiche, in cui la finta spensieratezza era solo un passepartout per darci qualche sberla di realismo (ma con simpatia) mentre si svegliava quella scena che per un decennio è stata chiamata indie ma che di indie non aveva quasi nulla se non la trovata di marketing discografico.
Dopo cinque anni, assolutamente non pago di quanto fatto durante quel lustro (il singolo “Le Sirene di Luglio”), dà alla luce un gioiello chiamato “DIE” – in cui l’elettronica sempre funzionale alla chitarra acustica diventa ancor più sperimentale e accompagna testi più enigmatici, sognanti, sempre però sprezzanti e realisti. Il volo però stava solo spiccando e quasi come voler capire bene quale direzione prendere, ben sicuro della forza delle proprie ali, passa un altro lustro per arrivare poi a quanto in questi giorni non ho fatto altro che ascoltare e riascoltare.
“IRA” ha praticamente preso il posto che avevo assegnato a “Lateralus” negli ascolti di questi giorni di festeggiamento del suo ventennale ed il perché è presto detto: questa volta Jacopo ha davvero superato qualsiasi barriera possa essere mai esistita tra il suono e la forma canzone – in suolo italico, il paese che mai si scrollerà di dosso l’etichetta del bel canto e poco più, realizzando un’opera d’arte di quasi due ore per 17 canzoni, assolutamente da ascoltare ogni volta da inizio alla fine come fosse un’esperienza catartica da vivere nella più completa solitudine.
Non siamo di fronte ad un disco qualsiasi, bensì al sentiero di un viaggio da percorrere con coraggio e convinzione e soprattutto senza distrazione alcuna dove gli Stormi ora sono un segnale nel cielo che ci indica quale direzione prendere verso un punto lontano e disdegnate quindi tutti coloro che avevano creduto alla favoletta dell’indie, sono gli stessi che guarderebbero il dito e non la luna.
E quindi “hiver” è solo la prima porta da aprire con la cautela di chi, curioso, scruta nell’oscurità che vede davanti a sé come ad un buio non spaventoso, fonte di preoccupazione, bensì da vedere come un percorso, un tunnel, verso un’altra luce, diversa da quella dalla quale si proviene.
Ormai, entrati nell’oscurità e chiusa la porta dietro alle nostre spalle, il viaggio deve continuare, possiamo sentire solo il richiamo non perfettamente comprensibile di “ashes” ed andare avanti senza più paura.
Ogni traccia di “IRA” è un sentiero di questa avventura in cui tribalismo, esoterismo, evocazioni, la fanno da padrone, la coralità dei mantra recitati in diverse lingue (inglese, arabo, spagnolo, tedesco) ci accompagna, sostiene ed eleva verso nuove percezioni.
Echi di Swans, Tool, Mars Volta, ma anche Radiohead, Wyatt, a volte primissimi Pink Floyd emergono dalle pareti buie insieme alle varie voci che saturano l’atmosfera ed ipnotizzano i nostri sensi per un viaggio monumentale, una catarsi estrema e sublime che Iosonouncane ci stende come un tappeto da seguire senza mai più voltarsi indietro.
Siamo quindi forse di fronte ad uno dei più grandi capolavori della musica italiana? Forse si, sicuramente una delle migliori opere sperimentali per le quali potremmo dirci fortunati di “esserci stati” ed è per questo che qualsiasi comprensibile barriera all’ascolto dovrebbe essere arginata perché “IRA” è un viaggio che mai e poi mai nella vita dovremmo rifiutare.
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