Sapete quanto è difficile raccontare qualcosa del Sulcis senza cadere?
In agguato i cliché, a gamba tesa le imprecise cartoline; volgari, troppo spesso, gli articoli su depressioni post-minerarie e post-industriali. Sterili, come gli scarti minerali, le variegate narrazioni artificiose. Nessuna strategia d’approfondimento né volontà di una corretta esplorazione in quest’epoca digitale iperveloce: click, tap, tutto uno scorrere, non abbiamo tempo, soffermarsi sempre di meno. Così ci dicono.
Protetto dall’Iglesiente, per me il Sulcis inizia dove il suo nome è sufficientemente onorato: ancestrale, vero, misterioso, pari alla grandiosità della sua Storia.
SLKY
𐤉𐤊𐤋 𐤎
Σολκοί
Solkoi
Sulci
Sulcis.
E chissà quali altri nomi ancor prima, nascosti nei segni nelle pietre, nelle voci e nelle tombe-casette, nei riti dedicati al Dio Toro, alla Luna, a Babai, a Tinniti e ai Grandi Misteri.
E gli occhi della sua gente (quegli occhi!), a mandorla, levantini, talvolta con un leggerissimo strabismo, quello di Demetra, la nascosta. E di Astarte e dei suoi cieli notturni.
Ancora prima, però, il Sulcis inizia dove la lingua sarda si fa dolce, rotonda, musicale. Dove, nelle parole, la tz lascia il posto alla c. Come in nessun altro luogo: Tzíu, zio, diventa quindi Cíu. È musica.
E come per nessun altro luogo corre galvanica la mia mente, a incartare poco scontate emozioni, calore, persone, famiglia, amici, risate, mare, estati ma anche inverni miti e le altre stagioni tutte.
La solitaria bellezza di una terra di confine, spesso ingabbiata, mai arresa, sicuramente più viva che mai. E la gentilezza, quella gentilezza delle persone, di una ospitalità semplice, autentica, mai invadente, mai sbandierata né imposta, come talvolta capita.
(E quegli occhi?)
Non faccio in tempo a collegare alcuni puntini su una mappa di vividi ricordi che subito essi mi scuotono, a farmi tremare con elettriche eco di gioventù, le sere, la luce, la notte, allegria, quei racconti detti piano, in un affetto così discreto da assomigliare all’armonia e alla felicità, per quanto sfuggenti utopie, queste ultime, rimangano.
E mi ritrovo così, adulto disarmato di fronte alla nostalgia, adulto preparato alla malinconia, versata piano quasi fosse un profumato vino bianco, in questo calice di anni che passano. E con essi la vita.
Ogni volta rivedo quei luoghi sulcitani che si presero cura di me, cambiati, alterati, riadattati eppure uguali, gli stessi. Gli stessi suoni, le stesse ombre e le stesse luci. Gli stessi silenzi, anche quando parla il vento.
Per pochi attimi tutto si popola. I paesi, le case, le stanze, le sedie, i tavoli, le voci. Le strade e i campi, le vigne scure di Carignano e chiare di speranza, le spiagge, le dune di sabbia, i profumi d’acqua e di salmastro e di aridi sentieri, di divino elicriso. E il chiasso dei parenti emigrati nei ritorni estivi sudati, di comunità, di lavoro nei campi, di miniera e di pelle arsa dal sole. Stringono forte gli abbracci, i saluti, per suggerirmi di non avere più paura e mi ritrovo bambino di nuovo. Per un attimo solo, con il pane al pomodoro di quelle estati dilatate. Bambino a piedi nudi sulla polvere fine, più in Nordafrica che in Italia, a respirarne l’essenza, di quella terra.
Mi trovo però anche a fotografare i dettagli di questi luoghi miei. Luoghi che mi sfuggono, sempre più.
Non è facile scrivere del Sulcis, per questo inevitabile intreccio di robuste radici, di affetto e di nostalgia resistente a ogni antibiotico, in un’appartenenza che non si logorerà mai.
Non è facile, per me, scrivere qualcosa del Sulcis senza cadere. Ho provato, in queste mie poche righe e con queste mie fotografie, a non inciampare; mi ero imposto di raccontare qualcosa sul calore umano e sugli scorci di una terra antica a me davvero cara.
Ho fallito.
È diventata, invece, una breve lettera d’amore incompiuta.
Anche per quegli occhi, levantini forse, che poi sono anche i miei.