Storico, di formazione, familiare, sentimentale, psicologico: il primo romanzo di Alessandro Serra, “Vita di Arturo Amavìs” (Il Maestrale, 2024, 240 pagine), è di difficile categorizzazione o, meglio, non lo si può circoscrivere in alcuna. Le sue pagine infatti si tingono di sfumature che solo a posteriori emergono nel loro colorito reale. Anzi, a volerlo ridurre in uno specifico genere si correrebbe il rischio di percepire limiti o incongruenze espositivi tali da minare l’effettivo valore dello scritto. A dire il vero la sensazione di indeterminatezza la si percepisce anche nella modalità descrittiva della voce narrante. Ma su questo ritorneremo.
Metà anni ’90 del Novecento. Alghero. Il giovane Arturo Amavìs non può proseguire la tradizione familiare di raccoglitori di corallo perché nato con un polmone malato che rende impossibile le immersioni. Cercando di dare un senso alla sua vita e di trovare il suo posto nel mondo, il protagonista racconta in prima persona un lustro della propria esistenza ma anche gli avvenimenti delle casate coinvolte. Gli Amavìs, famosi corallari, sono in rapporti commerciali con i D’Arriguez, che lavorano il rubrum con una maestria unica. I capostipiti Pedro e Carlo Maria divennero amici negli anni Trenta, entrambi rifugiati in convento per fuggire alle rappresaglie di Francisco Franco cui si opposero. Col tempo le due famiglie si allontanano ma Arturo incontra Igor e l’amicizia dei nonni rinasce in loro. Il nuovo legame trascina il protagonista nell’alveo travolgente e ambiguo dell’ultimo rampollo dei D’Arriguez, artista sfrenato e “interessato agli angoli bui dell’animo umano”. Nel suo studio Arturo conosce Giuseppina, nipote di Anita Rajko, che l’ha cresciuta, profuga giuliana di Fertilia. Qualche anno dopo si rincontrano scoprendo di avere in comune l’adorazione dei propri nonni e la mancanza dei genitori (seppur per motivi diversi) e cedendo ad un amore profondo ma sofferto a causa di un destino che sembra replicare quello tragico degli avi.
La storia di Arturo si intreccia con quelle degli altri personaggi, alcune delle quali sono figlie dirette della Storia (materia che Serra insegna da circa vent’anni): senza la dittatura del Caudillo nonno Pedro non sarebbe scappato da Sagunto (ricordo indelebile e miraggio nei racconti al nipote), Carlo Maria non si sarebbe dovuto nascondere in convento e i due non si sarebbero conosciuti; allo stesso modo, senza gli esiti della seconda guerra mondiale i giuliani non sarebbero fuggiti per trovare riparo nel villaggio voluto da Mussolini per i coloni ferraresi. Le altre storie ci arrivano direttamente dalla bocca del narratore.
E proprio questa focalizzazione produce quella sorta di indefinitezza cui si faceva riferimento sopra e che porta a chiedersi “Chi sta parlando?”. I luoghi sono descritti e definiti in maniera precisa ma possono essere luoghi dell’ovunque; il tempo di Arturo sembra essere lo stesso tempo dei flashback sulla sua infanzia o dei racconti del nonno. Delle descrizioni, ricche di particolari e di analogie fascinose, talvolta si ha difficoltà a distinguere la neutralità dall’immaginazione con cui sono osservate da chi le esegue.Il luogo sembra essere ogni luogo e il tempo ogni tempo. Il piano reale e quello metaforico si confondono. Quella focalizzazione, quindi, espressione dell’interiorità, si svincola dall’ottica personale e appare oggettiva.
In realtà proprio in questo sta l’abilità narrativa dell’autore: le vicende hanno valore connotativo più che denotativo e perciò esulano dal contesto storico o geografico e assumono valore universale; le relazioni genitoriali, le emozioni legate all’abbandono, alla solitudine, alla sofferenza degli esilii o delle fughe, alla differenza culturale, alla privazione delle persone care sono quelle proprie dell’essere umano, di ciascuno e di tutti.
Tornano in mente le parole del grande Cicitu Masala: “Leone Tolstoj mi ha detto all’orecchio: Descrivi il tuo villaggio e diventerai universale; se cerchi di descrivere Parigi, diventerai provinciale”.
Qui, i villaggi sono Alghero in tutto il suo pittoresco splendore e l’asettica Fertilia, due facce dell’integrazione di genti diverse.
La scrittura di Serra ci mostra il crepuscolo tra l’Io e l’Umanità e dà la sensazione di procedere sulla stessa linea di demarcazione di Arturo: “Non mi rispose, ma approfittò della rabbia che era venuta mutandomi nel cuore per spingermi a riflettere su quanto sottile fosse il confine che separava ogni padre dal proprio figlio. Ogni coscienziosa appartenenza dal più amaro degli abbandoni. Ogni vita rifulsa dalla sua più oscura e corrisposta morte”.
“Vita di Arturo Amavìs” sarà foriero di infinite suggestioni e rende Alessandro Serra un autore da seguire. La casa editrice Il Maestrale aggiunge un tassello prezioso alle novità editoriali dell’anno in corso.