Doveva essere una serata di festa e di sport quella di mercoledì 29 maggio 1985 a Bruxelles e invece da allora il nome Heysel, lo stadio dove si disputò la finale di Coppa dei Campioni fra Liverpool e Juventus è sinonimo di sciagura calcistica, di catastrofe, come Superga per il Grande Torino, come il British European Airways 609 del Manchester United, come Hillsborough, Ibrox e Bradford. Il tragico evento scosse profondamente anche l’opinione pubblica sarda; in quella notte maledetta, dove morirono 39 persone, persero la vita anche Giovanni e Andrea Casula, padre e figlio da Cagliari, Barbara Lusci da Domusnovas e Mario Spanu da Perfugas.
Li portorno via morti, poveracci!
Sur sangue ce buttorno un po’ de rena,
E poi vennero fora li pajacci.Cesare Pascarella
Sarebbe superfluo, perfino inutile, narrare ancora quei fatti scrivendo per l’ennesima volta la dolorosa cronaca di quella orribile notte. Giornali, reportage, libri, documentari e blog in questi lunghi decenni hanno affrontato ampiamente l’argomento e il suo infinito codazzo di polemiche. Nonostante questo, la memoria italiana per quella che è stata la più infausta notte della sua storia sportiva langue, rabbuiata dall’ignoranza e dal cattivo gusto di diverse curve che a suon di pessimi cori e ancor più di pessimi striscioni, fanno ironia di bassa lega e offendono, alla stregua di quanti in altre curve ancora usano lo stesso trattamento per la tragedia di Superga, la memoria di 39 persone che in quello stadio perdettero la vita.
Molti di questi messeri non sanno forse che non tutte quelle persone erano italiane, quattro erano belgi, due francesi e un nordirlandese, e che non erano neppure tutti juventini, fatto per il quale ci sarebbe, ad ogni modo, ci sarebbe ben poco da ironizzare in tale contesto. E allora qualcuno dovrebbe dirglielo a quelli che nella curva dell’Internazionale di Milano nel 2011 esposero il loro indecente striscione incuranti che fra quei 39 c’erano Mario Ronchi, Tarcisio Salvi e Nino Cerullo, tutti tifosi neroazzurri.

Chissà invece se lo sanno gli ultras fiorentini che il dottor Roberto Lorentini, dopo essersi già messo in salvo in quella bolgia infernale tornò sugli spalti per cercare di rianimare un piccolo tifoso e venire travolto fatalmente da una nuova carica degli hooligans, tifava per la Viola di Passarella, Socrates e Antognoni. Secondo alcune testimonianze quel bambino era Andrea Casula.
Sorride Andrea, solare e abbronzato, nella foto che lo ritrae al mare pubblicata dal ‘Corriere della Sera‘ con la didascalia che indica “il Pulcino del Cagliari“. In realtà è alla ‘Gigi Riva” che quel bambino non ancora undicenne tirava calci al pallone con passione ed entusiasmo, lo stesso che metteva nello studio e che gli fece guadagnare un premio speciale: la finale di Coppa dei Campioni della sua amata Juventus. Sorride Andrea, anche in quella pubblicata da ‘L’Unione Sarda‘ mentre indossa una maglietta che ha il suo nome stampato, forse, da gran appassionato di computer, sogna quel Commodore 64 nuovo di zecca in sostituzione del vetusto Vic 20 o di giocare al calcio nel glorioso Sant’Elia anche se il Cagliari di allora non era più quello dei fasti del 1970. Sicuramente sognava ad occhi aperti quel giorno a Bruxelles in compagnia di suo padre Giovanni, quando a pochi minuti da un evento che avrebbe ricordato per sempre e per il quale sarebbe stato invidiato da compagni e amici, tutto si spense e venne il buio totale.
Testimoni di quel massacro e di quelle ore di angoscia e terrore furono anche altri sardi. Alcuni di loro ebbero salva la vita, come Antonio Porcu e Macario Masala di Ghilarza; Emilio Melis, Paolo Melis, Paolo Mocci, Pietro Melis, Giancarlo Monzittu e Antonio Corona, tutti di Decimoputzu, o Italo Lai e Salvatore Ferreli di Lanusei che raccontarono ai giornalisti Leonardo Mele, Antonio Masala e Tonio Pillonca de ‘L’Unione Sarda’ la loro disavventura. Altri, come Barbarina Lusci di Domusnovas, ma da anni emigrata in Belgio e Mario Spanu di Perfugas, emigrato a Novara dove faceva il cuoco in Autogrill che si trovarono, loro malgrado, nell’epicentro della catastrofe, invece non ebbero scampo.

Il giorno dopo in una scuola elementare del centro Sardegna una maestra piangeva, si vociferava che anche un compaesano fosse a Bruxelles ad assistere a quella maledetta partita e c’era grande apprensione Un suo alunno allora capì; capì lo sconcerto del compianto Bruno Pizzul, capì che per quella partita alla quale aveva assistito attraverso lo schermo di un Mivar in bianco e nero assieme al fratello e allo zio, juventini sino al midollo, e aveva esultato assieme a loro, nonostante il suo credo calcistico fosse fedele al verbo di Karl-Heinz Rummenigge e Spillo Altobelli, all’atterramento di Zbigniew Boniek e al rigore trasformato da Michel Platini, c’era poco da esser contenti.
Quel giorno se ne andava per sempre un bel pezzo di innocenza, per quel bambino e per un’intera generazione che conservava le immaginette di Paolo Rossi, Marco Tardelli e degli altri eroi del Mundial del 1982 ma faticava a capire chi diceva che quando moriva il trapezista, sul sangue si buttava la sabbia e venivano chiamati di corsa i pagliacci. Lo avrebbero fatto da adulti, imparando, come avrebbe cantato Lucio Dalla anni dopo, raccontando in musica Ayrton Senna, che tanto il circo avrebbe cambiato città. E il circo avrebbe traslocato anche quando pochi anni dopo, per una singolare “vendetta” del fato o del destino, furono gli stessi tifosi del Liverpool a vivere sulla loro pelle la tragedia di Hillsborough che causò la morte di 96 persone.
Al funerale di Giovanni e Andrea Casula partecipò anche Luigi Riva, colui che dava il nome alla scuola calcio dove giocava quel bambino che sognava in grande ma che non ebbe tempo e modo di perdere quell’innocenza che si sbriciolò fra le macerie di uno stadio belga e l’assurdità di una partita di pallone.
Ci rimane la memoria di questo bambino, del suo genitore e di quelle altre 37 vite spezzate, una memoria da tenere viva, oltre l’idiozia, la polvere, il tifo e le polemiche, perché “senza memoria, come sostiene il giornalista Emilio Targia, testimone oculare di quell’evento, autore del libro ‘Quella notte all’Heysel’ – Sperling & Kupfer 2015 e del podcast ‘Dentro l’Heysel’, saremmo sempre luci spente”, e in un mondo del calcio che spesso tende ancora verso l’oscurità c’è urgenza di luminosità e non sarebbe male ripartire dal ricordo vivido di quella che sprigionava con entusiasmo il piccolo Andrea Casula.