Il silenzio ha l’oro in bocca.
Se hai dell’oro in bocca non puoi parlare.
Questa è la verità.
Chi potrebbe pronunciare non più di un mugugno avendo un lingotto d’oro dentro la bocca?
A volte immagino situazioni del tutto irrealistiche e provo a immedesimarmi in esse. Sento chiaramente l’ingombro di questo oro, e pure il suo peso. Non mi consente di parlare e se proprio devo interrompere il silenzio imposto dall’oro, devo togliermelo dalla bocca.
Risultato? Le parole non hanno oro, da nessuna parte. Soprattutto quelle dette.
Le parole che pronunciamo sono spesso mancanti della lucentezza e preziosità del pensiero sottostante, racchiuso e custodito nel nostro silenzio. Ma talvolta è necessario parlare. Interrompere il silenzio ha senso se diventa causa di omissione, quando parlare è meno dannoso che stare zitti.
Allora, consci del lingotto d’oro che abbiamo in bocca, come possiamo esprimere nel nostro eloquio il valore del silenzio contemplativo?
Ora mi immagino alchimista, che se ha dell’oro in bocca ha anche certamente compiuto la sua opera, trasformare il piombo in oro, ma affinché l’opera sia completa, l’oro non deve essere pesante. Entro nel mio laboratorio alchemico e rendo l’oro fluido, un buon alchimista sa come fare.
Per stare nella metafora, rendo scorrevole il mio valore, adattabile ed essenziale come l’acqua che prende la forma del suo contenitore, che passa sinuosa sugli ostacoli e si infila in ogni anfratto.
Oro liquido, così possono essere le parole. E poiché l’oro è prezioso e non va sprecato, come possono essere le nostre parole per stare all’altezza del silenzio?
Il maestro Tibetano, che risponde al nome di Djwal Khul, direbbe che le parole devono essere buone, utili e amorevoli. Sono buone quando non arrecano danno, quando accarezzano l’animo sofferente e portano sollievo. Sono utili quando avvisano, proteggono, condividono, dichiarano amore. Sono amorevoli quando contengono compassione, perdono, indulgenza, pazienza.
Invece, mio buon cuore, siamo maledettamente logorroici.
Vogliamo dire tutto, sappiamo tutto e ci piace parlare di noi. A volte ci profondiamo in autocelebrazioni mascherate, solo per rispondere alla domanda “e tu che fai di bello” occupando delle mezz’ore del prezioso tempo altrui. Sono le parole dell’ansia, piene di respiro pesante e preoccupazione, diffondono tensione anche quando superano la fessura dei denti lucenti e ridenti.
Le parole rispecchiano il nostro pensiero, anche quello che non credevamo di aver formulato e se sono nere e pesanti è perché c’è una folla inferocita che fa scorribanda nella nostra testa.
Certe persone sono come radio rotte, in bilico tra una frequenza e un’altra, con un forte rumore di fondo e interferenze che confondono.
Quando spegni l’arroganza, la paura, la presunzione rimane il silenzio della calma.
Allora potremmo stare zitti, “with no alarm and no surprises”, senza allarmi né sorprese, cantato con quella sua voce semi-intonata e spesso gutturale, come se le cose non le volesse dire del tutto. È Tom Yorke, i Radiohead, e con No Surprises vi dò appuntamento con le letterine speciali di Alfabeto Interno, a presto con K, J, X, Y W.
(Foto di Kristina Flour)