In questo articolo faccio riferimento a un tema preciso nel pensiero del filosofo inglese Thomas Hobbes che visse i suoi novantuno anni sulla coda del 1500 e per una buona parte del 1600. Questa collocazione temporale è di estrema importanza perché gli permise di vedere il superamento della filosofia scolastica e l’affermarsi dell’umanesimo, con il ritorno alle humanae litterae e la riscoperta dei classici greci e latini.
Fu proprio l’attento studio e la traduzione in inglese del capolavoro storiografico di Tucidide, La Guerra del Peloponneso, a convincerlo che un governo democratico non potesse essere adeguato davanti alla minaccia della guerra. E guerra vuole dire morte.
Uno dei temi al cuore del pensiero di Hobbes è la paura della morte, della morte violenta. Sarebbe questa paura a spingere gli esseri umani ad associarsi e a sottoporsi alle regole di uno Stato, che Hobbes rappresenta nella figura del Leviatano, e nel quale gli uomini rinunciano a tutti i loro diritti naturali pur di conservare la vita.
Hobbes parte dal concetto di stato di natura a causa del quale gli esseri umani si mostrano come degli assoluti, separati da ogni relazione, e nel quale si abbia diritto a tutto, nella forma egoistica che porta con sé. Chiaramente questo darebbe vita a continui conflitti, alla predominanza di tutti su tutti, che troviamo nell’espressione latina bellum omnium contra omnes (letteralmente “la guerra di tutti contro tutti”). Si tratta di un egoismo naturale degli esseri umani di cui si ha traccia già nel fratricidio di Abele per mano di Caino.
Ma l’invenzione di uno stato onnipotente che impedisse agli uomini di uccidersi tra di loro, richiederebbe in cambio la rinuncia a ogni dimensione politica. Mitigare l’assoluto individuale avrebbe come controparte la nascita di uno stato assolutista, totalitario. Hobbes, però, ritiene che basterebbe associarsi e stabilire delle regole condivise per ordinare l’accesso alle risorse e garantire la vita.
In sostanza, la gestone delle passioni, tra cui Hobbes fa rientrare il sentimento devastante dell’invidia, che porta a desiderare qualcosa non già perché necessaria ma piuttosto perché posseduta da un altro, sarebbe il primo passo verso la comprensione di ciò che ci fa sentire minacciati, che ci spaventa. La paura sarebbe funzionale, ancora una volta, alla costituzione di una convivenza regolata e condivisa, ma solo a patto che si riesca ad ascoltare il messaggio che essa ha da comunicarci. Hobbes però ne fa un fatto puramente sociale, non entra nella dinamica interna dell’individuo, cosa che, invece, mi propongo di delineare qui brevemente.
Se associarsi per la convenienza di tenere cara la pelle sarebbe la spinta positiva derivante dalla paura della morte violenta, è necessario comprendere che una scelta così importante non può a lungo sostenersi se il movente fosse solo di tipo materialistico. Vi è infatti la sopravvivenza psichica a chiederci di negoziare tra le emozioni basse e quelle elevate, affinché nella rinuncia al male per il bene della nostra vita interiore, si abbia da offrire la migliore fioritura dello spirito che ci attraversa, e che può essere messa al servizio della stessa comunità nata per auto-proteggersi. Se questo non avvenisse, se non si compisse un percorso di consapevolezza, si avrebbe un’aggregazione di individui sotto la tirannia del Leviatano, lo stato mostruoso che agisce al di sopra di ogni trattativa democratica.
Ci siamo avvicinati, nel nostro paese, a una situazione del genere dal momento che diversi governi tecnici si sono susseguiti senza soluzione di continuità ed ancora oggi, in coda a uno stato di emergenza e nel pieno di una guerra poco distante dai nostri confini nazionali, e pur di tenere cara la pelle sembra stiamo rinunciando alla consapevolezza che uniti si prospera, mentre comandati a senso unico si sopravvive, forse, nel corpo ma si muore nell’anima.