Quanto successo alla laveria di Montevecchio 150 anni a oggi è l’emblema delle drammatiche condizioni di vita e di sfruttamento del lavoro che caratterizzarono le miniere sarde fra la seconda metà dell’Ottocento e il Novecento, con particolare riguardo all’occupazione femminile e minorile. Fra il 1866 e il 1875, sotto la direzione di Giorgio Asproni junior, la miniera di piombo argentifero di Montevecchio, un giacimento di circa milleduecento ettari concessi all’imprenditore sassarese Giovanni Antonio Sanna fra i territori di Guspini e Arbus, con i suoi millecento addetti era la più grande del regno. Vi lavoravano i minatori e gli operai specializzati che provenivano in gran parte dal Piemonte e dalla Lombardia, mentre alle maestranze sarde spettavano per lo più le mansioni di manovalanza e lavoro grossolano per gli uomini e quelle di cernita e lavaggio per i fanciulli e per le donne. La notte del 4 maggio 1871, alcune di loro, mentre riposavano in una sorta di baracca adibita a dormitorio, al termine dell’ennesima estenuante giornata lavorativa, vennero uccise da un fiume d’acqua e detriti scaturito dal crollo di una cisterna. Le vittime furono 11. La maggior parte di loro aveva meno di 15 anni. Si tratta di una delle più grandi tragedie del lavoro femminile isolano che tuttavia è ancora sconosciuta ai più.

Quando nel 1869, nell’ambito della commissione parlamentare d’inchiesta sopra le condizioni morali, economiche e finanziarie della Sardegna proposta da Giorgio Asproni senior e presieduta da Agostino De Pretis, Quintino Sella visitò i siti minerari isolani, rilevò che i salari percepiti dai lavoratori della miniera di Montevecchio erano fra i più bassi dell’isola.
La mercede giornaliera di un minatore era di 2,75 lire, quasi la metà rispetto a quella di un suo equivalente di Ingurtosu; quella di un manovale di 1,62, quasi la metà di quella di Monteponi e quella delle cernitrici molto bassa in quasi tutti gli stabilimenti, di 1,22 lire.
Le donne, impegnate quasi esclusivamente nello spaccare, scegliere e insaccare il materiale, lavoravano sei giornate settimanali per 11 ore: 6 al mattino e 5 alla sera. Alloggiate in prossimità della zona di lavoro, dormivano in precari ricoveri circolari col tetto a punta, molto simili alle pinnettas dei pastori sardi ( “accampamento di negre tende” lo definì Carlo Corbetta) o in baracche di tavole.
Sfruttate e costrette a un lavoro disumano in ogni condizione atmosferica, esposte alle febbri malariche e senza nessuna tutela, la maggior parte di loro erano appena più che bambine. Dalla relazione sul lavoro femminile e minorile del 1880 risulta che fra le 417 donne impegnate nelle mansioni minerarie ben 304, ovvero circa il 70%, non aveva ancora compiuto 14 anni. Il 15% dei maschi impiegati nei lavori esterni era composto da loro coetanei.
Il primo a raccontare con acuto realismo quanto accadeva nelle miniere isolane fu un giovanissimo Gabriele D’Annunzio, che parlando delle miniere di Masua scriveva: “sono donne macilente, flosce, quasi istupidite dall’incubo di quella oscurità domestica pregna di miasmi, dalla caldura soffocante di tutta una notte; sono bimbi rachitici, col viso per lo più chiazzato di croste, con gli stinchi fiacchi, senza un lampo ilare nella pupilla, senza uno strillo di gioia in bocca, senza un impeto libero in cuore”.

Questa situazione era frutto della convinzione diffusa allora che per l’ammissione al lavoro fosse sufficiente l’età fra i 9 e i 12 anni e giustificata dalla credenza che lo sviluppo fisico nelle regioni meridionali e nelle isole fosse precoce rispetto a quello dei ragazzi e delle ragazze settentrionali. A ciò si aggiungeva l’assunto secondo il quale vi erano delle occupazioni alle quali potevano attendere senza alcun danno anche i fanciulli al di sotto dei nove anni, come accadeva in Sardegna, dove nelle miniere la cernita del materiale veniva fatta molto bene da bambine che lavoravano all’aria aperta, col corpo in costante movimento, che così ci guadagnavano, “anziché scapitarne”, nello sviluppo fisico.
Da più parti veniva sollevata la questione sull’inopportunità dell’utilizzo del lavoro minorile per mansioni tutt’altro che leggere, che non solo erano nocive per la salute e la crescita, ma sottraevano i ragazzi e le ragazze alla frequentazione scolastica.
A coloro che richiedevano leggi per garantire un’istruzione alle fasce giovanili, come il dottor Stanislao Bruera, che conosceva bene la realtà mineraria sarda e lo stato d’ignoranza nel quale cresceva la popolazione, veniva risposto che quelle leggi “potrebbero privarli del pane, condannandoli all’ozio ed al vizio, per ricoverarli più tardi negli ospedali o nelle prigioni; mentre che, avvezzi sino dalla prima età al lavoro, benché illetterati, si conserverebbero onesti e diventerebbero per tempo abili operai”.

Questa era la visione diffusa, dal sapore coloniale e al limite dello schiavismo, di quanti governavano e in teoria avrebbero dovuto tutelare la salute e l’istruzione di bambini e bambine, che venivano così sfruttati e lasciati nel più totale analfabetismo.
In questo contesto va inquadrata la tragedia di Montevecchio del 1871.
Nei pressi del cantiere Atzuni stava una baracca dove le cernitrici passavano le notte alla bell’e meglio. A poca distanza era stato costruito di recente un serbatoio per l’acqua della portata di 80 metri cubi. La notte del 4 maggio intorno alle 23, per “una fatale circostanza”, il muro della cisterna cedette e la forza dell’acqua e dei detriti travolse la struttura seppellendo 15 donne.
Quattro di esse vennero estratte vive dalle macerie, per le altre 11 non ci fu nulla da fare. La più anziana, la guspinese Rita Vacca, aveva 50 anni, mentre la più piccola, Elena Aru da Arbus, era ancora una bimba di appena dieci. Da Arbus venivano anche le altre vittime: Luigia Murtas di 27 anni, Antioca Armas di 32 e Luigia Vacca, Anna Melis, Anna Atzeni, Caterina Puxeddu, Anna Peddis e Anna Puxeddu, tutte comprese fra i 14 e i dieci anni.
In seguito a questa tragedia venne aperta un inchiesta, che non servì però ad accertare le responsabilità e la direzione della miniera ne uscì immacolata. Le leggi del 1886 e del 1902, che in teoria avrebbero dovuto tutelare minori e donne nel loro lavoro, non migliorarono la situazione. Le morti sul lavoro proseguirono ancora per decenni e nel 1913 la tragedia si ripeté nuovamente a Buggerru, quando nella miniera di Gennarenas la parete frontale della griglia per la cernita del materiale crollò e uccise altre quattro donne.
Chi desidera approfondire l’argomento può farlo leggendo il libro di Iride Peis Conca, ‘Donne e Bambine nella miniera di Montevecchio’.
![Immagine 1 - Donne e bambine nella miniera di Montevecchio - [Pezzini]](https://i.ebayimg.com/images/g/Yb0AAOSw2OtgD7-V/s-l1600.jpg)