Condannato dalle grandi religioni monoteiste, visto come occupazione preferita dei fannulloni, sospettato di essere il rifugio di chi si rifiuta di crescere e infine anche tacciato di essere foriero di perdizione. Il gioco ha subito per millenni uno stigma sociale pesantissimo, oggi, finalmente, ha spezzato queste catene e rivela il suo immenso potenziale.
Il LEI festival ha ospitato ieri un interessante dialogo tra Spartaco Albertarelli (game designer) e Beniamino Sidoti (scrittore e giornalista), persone che di questo argomento se ne intendono. Il primo è un veterano di Editrice Giochi, l’azienda che dal 1963 si dedica all’ideazione e messa in commercio di giochi da tavolo. Il secondo, tra le altre cose, è autore, insieme a Andrea Angiolino, del “Dizionario dei giochi 2023”, un’opera di oltre mille pagine che contiene tutti i giochi conosciuti.
“Finalmente possiamo dire di giocare senza sentirci giudicati – dice Albertarelli – il gioco era per i bambini o per quelli che non avevano voglia di combinare nulla. Con l’arrivo di Dungeons & Dragons è cambiato tutto”. Il popolarissimo gioco interattivo arrivato in Italia nel 1984 appassiona subito un folto gruppo di fan trasversali per età e professione, li coinvolge in tornei che guardandoli oggi sono certamente il primo passo verso un cambiamento di pensiero e di rottura dello stigma. “Stessa cosa avvenne per Risiko – prosegue Albertarelli – una cosa folle, sopravviveva chi restava vivo dopo l’estenuante prova. Arrivò dopo una versione da torneo che si è assestata sull’ora e mezza di durata”.
In Occidente, ma non solo a ben guardare, il gioco è sempre associato al pericolo, al vizio, al disimpegno. Fu Giampaolo Dossena, giornalista, scrittore e ideatore di giochi di parole sui quotidiani nazionali, a dichiarare per primo che il gioco è circondato dal discredito. “Il cambio di passo è avvenuto, per fortuna – racconta Sidoti – e autori e giocatori sono invitati ai festival, nelle scuole e all’università per portare contenuti d’interesse che viaggiano con l’azione stessa del giocare”.
Non una storia facile quella del gioco, tra storture linguistiche che ne impediscono una corretta definizione e questa aura di sospetto che lo accompagna. Freud scrisse che il contrario di gioco non è ciò che è serio ma ciò che è reale. Una frase illuminante che ci proietta immediatamente nella dimensione del fantastico. La stessa parola italiana divertente deriva dal latino “divergo” cioè mi allontano, mi estraneo, mi muovo verso qualcos’altro.
“Il gioco viaggia col suo bagaglio di evasione, di fantasia, di magia – prosegue Sidoti – ed è un inno alla creatività e all’invenzione, il gioco evoca la libertà stessa. Basta pensare che Monopoly è stato inventato da un’attivista socialista e Risiko da un fervente pacifista”.
“Giustissimo – gli fa eco Albertarelli – il gioco è democratico, a differenza della realtà in cui le regole non ci piacciono troppo perché le sentiamo imposte, nel gioco le accettiamo come terreno comune dove operare tutti alla pari. E a questo proposito sappiate che è un grave errore far vincere i vostri figli e i nipotini, loro sono i più grandi giocatori in assoluto. Pensate a Memory, loro fiutano la vostra paura e sanno che vinceranno. Bene, siccome le regole sono uguali per tutti dovete massacrarli!”
In effetti il gioco, con la sua tabella di marcia, è un simbolo di equità e non conosce differenze di genere. Pensiamo a Barbie reginetta del ballo. Gioco da tavola uscito nel 1975, dove la nostra bionda protagonista deve eseguire una serie di passaggi per arrivare al ballo che comprendono trovare un vestito, trovare un gioiello e un cavaliere per la serata. Con buona pace dell’uomo oggetto. Non esistono giochi per maschi e per femmine, esiste semmai la volontà di indottrinare la gente e incanalarla in ruoli precostituiti. Il gioco invece è libertà da questi ruoli, è emancipazione, è scelta.
“I giochi sono spesso anticipatori di eventi o tendenze – continua Albertarelli – pensiamo a Pandemic che descrive perfettamente ciò che abbiamo dovuto sopportare con il Covid19. Oggi si guarda spesso ai giochi e ai videogiochi per realizzare film e libri, prima era l’esatto contrario”.
E non è un caso se il premio Nobel per la chimica David Baker è anche un grande amante dei giochi, nonché uno dei padri dell’Intelligenza artificiale. Gioco e tecnologia infatti sono spesso a stretto contatto, basta pensare alle sfide scacchistiche uomo vs computer trasmesse in diretta tv e a come l’evoluzione della macchina ha portato a scoperte straordinarie esuli dagli imput forniti dall’uomo.
Cambia dunque il ragionamento intorno a questo mondo complesso, fatto di tante professionalità diverse, e che riconosce all’industria del gioco un ruolo notevole nell’economia e nel mondo del lavoro. Il gioco è anche veicolo per valori che, seppure in apparenza piccoli, tracciano comunque una linea di pensiero. Un bell’esempio? La Lego, colosso irraggiungibile, fino al 2000 non ha prodotto un certo tipo di colore verde perché non voleva che fosse utilizzato per costruire modellini militari o macchine da guerra.