Si cominciava sempre così. L’accusa, vera o presunta, di un furto di poco conto ai danni di qualche proprietario benestante e la scelta obbligata fra svariati anni di confino o la via libera della latitanza. Liberato “Liberau” Onano da Aritzo e Michele Moro noto “Torracorte” da Gadoni si erano conosciuti mentre “erravano” alla macchia nei salti fra la Barbagia di Belvì e il Sarcidano, sul far degli anni 80 dell’Ottocento, entrambi impegnati a sottrarsi ai diversi mandati di cattura emessi dai pretori di Aritzo, Isili e Seui. Era l’inizio di una carriera fuorilegge che sarebbe durata quasi vent’anni, con i due protagonisti destinati, come tanti altri esponenti del banditismo sardo, a godere nell’immaginario popolare di oggi e di allora, di ampia simpatia e rinomanza; specialmente il Moro, che Becchi avrebbe chiamato “il fosco patriarca dei banditi del Campidano” e che spesso veniva considerato alla stregua di un ribelle capace di farsi carico delle vendette di tutti gli oppressi, che sottraeva il maltolto ai “galantuomini”. Tuttavia, dietro al mito popolare si cela una storia lastricata di sangue, malaffare, corruzione, politica e paura, che avrà termine soltanto nel primo anno del nuovo secolo, ma che a distanza di tantissimo tempo echeggia ancora fra i monti del Gennargentu e la valle del Flumendosa.
Una messa a Meana
Il 24 agosto del 1899 a Meana Sardo è giorno di festa e nella parrocchia di San Bartolomeo, mentre il rettore di Sorradile, Cosimo Manca, durante il panegirico ricorda la figura del santo apostolo titolare della chiesa, la funzione viene bruscamente interrotta dall’ingresso di due carabinieri, che, preceduti da un grosso cane che abbaia, raggiungono la navata di destra e traggono in arresto un uomo. Fra un coro di grida, pianti e lamenti comincia a diffondersi la voce che l’arrestato sia Torracorte e che nell’atto di ribellarsi stia per metter mano a una rivoltella o a un pugnale al fine di divincolarsi dai gendarmi. Questo bizzarro episodio la dice lunga su quanto la popolarità e il terrore di Michele Moro fossero diffusi nell’isola. In realtà in quella data, il latitante gadonese e il suo inseparabile compagno Liberau avevano ben altro da fare che andare a sentire messa o far festa nella vicina Meana; quel giorno infatti stava per cominciare la fine della loro avventura.
I guai giudiziari di Liberato Onano e Michele Moro cominciano quando i due hanno circa 35 anni. Il primo per aver partecipato a una rapina in banda armata e per un furto di maiali nel territorio di Seui, e il secondo in seguito a una condanna per aver preso parte a una rapina commessa a Mont’è Cresia, in agro di Aritzo. Entrambi hanno passato gli anni della loro gioventù a lavorare come allevatori, servi pastori, boscaioli e campieri nei dintorni di Gadoni ed Aritzo, dove fino ad allora i latitanti erano quasi del tutto assenti e le storie dei fuorilegge erano relegate al ricordo delle gesta di Antonio Agus e di Bachis Sulis, il poeta bandito.
La vendetta è un piatto freddo
Appena riunitisi in latitanza, il loro curriculum penale è aggiornato da una lunga serie di mandati di cattura spiccati fra il1880 e il 1883 in seguito alle accuse di rapina, abigeato, tentato omicidio, grassazione in banda armata, furto aggravato, estorsione e violenza carnale. Protetti da una rete di complici e fiancheggiatori, dimorano abitualmente nei dintorni della foresta di Corongia, accumulando bestiame e denari, dove vengono assiduamente ricercati da carabinieri e barracelli, con i quali occasionalmente ingaggiano violenti scontri a fuoco. Succede così anche il 4 gennaio del 1880. Mentre i due latitanti si trovavano in compagnia di altre persone nella regione detta Pranta de Coccu, il gruppo viene intercettato da una squadra di carabinieri e barracelli guidata dal capitano di quest’ultimi, Angelo Broccu. Ne scaturisce una violenta sparatoria con una pioggia di piombo d’ambo parti. Liberau e Torracorte si danno alla fuga, ma sul terreno rimane, crivellato di colpi, un ragazzo di appena 16 anni. Il corpo è quello di uno dei fratellastri di Torracorte, Sebastiano, nato dalle seconde nozze della madre Maria Rosa Floris con Michele Cocco.
L’episodio è uno di quelli destinati a far fare il salto di qualità a Michele Moro, che, accecato dall’odio, comincia a meditare vendetta e ad intraprendere la strada della violenza più efferata per farla pagare cara al capitano dei barracelli. Angelo Broccu sa di essere in pericolo e viene invitato dagli amici e dai familiari alla prudenza. Ha 45 anni, è sposato con Maria Polla, lavora come fabbro ferraio ma si dedica anche alla campagna nella regione di Sinisia, dove spesso tiene al pascolo un cavallo. La notte fra il sei e il sette maggio del 1884 riceve la visita di Michele Moro in compagnia dell’inseparabile Liberau. Due fucilate lo rendono cadavere all’istante, ma Torracorte è talmente avvelenato e pieno d’odio cha arriva al tagliarli la lingua e a dare fuoco al corpo ormai privo di vita.
Un destino scritto col piombo quello di Broccu, figlio di Francesco, morto ormai anziano appena due anni prima, l’armaiolo di Gadoni passato alla storia per la sua attività e in special modo per avere inventato, tre anni prima di Samuel Colt, la prima pistola a tamburo. Il 15 maggio il pretore di Aritzo emette un mandato di cattura nei confronti di Michele Moro e Liberato Onano per avere ucciso il Capitano dei barracelli di Gadoni. Pochi mesi dopo, la Corte d’Assise del tribunale di Cagliari li condanna in contumacia alla pena di morte.
La popolazione di Gadoni s’indigna, ma lo fa silenziosamente, e se per caso col favore delle tenebre Torracorte entra nell’abitato per far visita alla madre o per far baldoria in qualche osteria, nessuno ha l’ardire di denunciarlo o di segnalarlo alla giustizia. Ma incutere terrore non basta e a prestar fede a quanto narrano le cronache dell’epoca, Moro e Onano per tutelarsi maggiormente, cominciano a stringere rapporti con alcune influenti famiglie della zona e in particolare con quella degli Arangino, ricchi proprietari terrieri di Aritzo, strettamente legati al deputato e più volte ministro Francesco Cocco Ortu, che in cambio di alcuni servigi offrono protezione ai due latitanti. Un rapporto di reciproco interesse, abbastanza diffuso all’epoca, che serve al signorotto locale per tener buoni e lontani dalle sue proprietà i due latitanti e a Torracorte e Liberau per evitare di scappare dalla giustizia come le lepri, venendo puntualmente avvisati su ogni operazione di polizia, garantendosi così un’impunità meno affannosa e una maggiore libertà d’azione, anche perché Torracorte ha ancora qualche conto da sistemare.
C’è un tale di nome Raffaele Ortu, conosciuto in paese come Crabetoreddu, il quale aveva deposto circostanze gravissime a carico di Michele Moro, per la rapina di Mont’e Cresia del 1879 e sulla sua testimonianza aveva fatto affidamento il magistrato per condannare Torracorte che da allora si era dato alla latitanza. L’attesa dura quasi sei anni, fino al pomeriggio del 7 aprile 1885, quando i due s’incontrano nella regione Perdalesei. Torracorte sulle prime offre del vino all’Ortu che però rifiuta di bere. Alla richiesta di spiegazioni in merito alla sua testimonianza in pretura, risponde, balbettato poche parole sconnesse, di aver detto soltanto la verità, firmando di fatto la sua condanna a morte che è una vera e propria esecuzione, col Moro che fa inginocchiare e chinare il capo alla sua vittima, per poi scaricargli due colpi di fucile a bruciapelo, che lo freddano all’istante.
I re della macchia
La vita errante dei due re della macchia continua per almeno un decennio senza mietere altre vittime, come continuano le loro attività criminali, alle quali si aggiungono la “partecipazione” alle lotte elettorali, con i due intenti a catechizzare col fucile gli indecisi al voto – per questi fatti verrà presentato un ricorso in Cassazione da parte di Enrico Carboni Boy che contesta l’elezione del suo avversario, l’onorevole Cocco Ortu, che lo aveva battuto “grazie agli amici di Torracorte”, nel collegio di Isili, ricorso che tuttavia verrà rigettato – e la pratica del prestito di denaro per interesse; “gli argomenti persuasivi di cui disponeva il creditore Io dispensavano dal ricorrere all’usciere – malignava un cronista dell’epoca – la carta bollata era bandita dai suoi atti esecutivi”.
Gli anni passano, la Sardegna sta vivendo una delle sue stagioni più gravi e la stanchezza della vita banditesca comincia a farsi sentire anche per Torracorte e Liberau, che evitano accuratamente sia di far causa comune coi latitanti del nuorese, ma anche di accettare il ruolo degli intermediari per il rilascio di Jules Paty, un imprenditore francese sequestrato nelle campagne di Gadoni nel 1896. Questo fatto, che riempe le colonne dei giornali e che produce qualche inconveniente diplomatico, assieme alla bardana di Meana dell’anno successivo, attira nella zona un numero considerevole di carabinieri e soldati. Troppi, per i due latitanti che stanno meditando di abbandonare ogni attività criminale con la speranza di vivere di rendita il resto dei loro giorni, indisturbati nel loro regno di Corongia, non prima però di aver ucciso barbaramente un altro presunto delatore, Salvatore Boi e di averne occultato il cadavere nel 1894.
Sul finire del secolo a Roma si decide di debellare una volta per tutte la piaga del banditismo sardo. I nomi dei due fuorilegge, sui quali pende una taglia di 5000 lire a cranio e ben 18 mandati di cattura, sono fra i primi nella lista degli elementi da togliere dalla circolazione, con le buone o con le cattive. Tuttavia Torracorte e Liberau non sono tipi che si lascerebbero catturare tanto facilmente e non basterebbe un intero reggimento di soldati per scovarli. Per questo, prima di ogni imboscata di carattere militare, serve prendere alcuni accorgimenti e giocare d’astuzia, togliendo ai latitanti la loro base di sostegno.
Si comincia intervenendo senza alcun clamore su Antonio Arangino cha da allora comincia a non dormire più sogni tranquilli. Trovandosi costretto a togliere ogni protezione ai masnaderi della Barbagia di Belvì, ha paura che Torracorte voglia vendicarsi nottetempo e ogni sera alloggia in una stanza diversa. Ma è Gadoni che bisogna colpire e lo sa bene il capitano dei carabinieri Manai che dirige le operazioni.
La notte di San Bartolomeo
Fin dalle prime ore della notte del 24 agosto, si ripete, seppur in scala minore, un’operazione di polizia simile a quella compiuta nel circondario di Nuoro nel maggio precedente, durante la quale vennero arrestate oltre 700 persone, che venne chiamata “la notte di san Bartolomeo”. Forse non è casuale che per questa replica si scelga proprio la vera notte di San Bartolomeo. Per non destare sospetti carabinieri e soldati entrano nell’abitato gadonese alla spicciola con una lista di trenta nomi di persone da arrestare, fra i quali la madre e la sorella di Torracorte. Il fratello intanto è già stato arrestato a Nuragus il 17 precedente e nei giorni successivi le autorità hanno sequestrato centinaia di capi di bestiame che si sostiene appartengano ai due latitanti.
Moro e Onano adesso sono veramente soli. Privati della loro base di manutengoli e famigli, sono “come due aquile ferite”,- scriverà Ranieri Ugo – braccati da centinaia di soldati, carabinieri, barracelli e volontari civili che da tre zone distinte hanno cominciato l’accerchiamento della foreste che per quasi vent’anni erano state il loro regno. Si stava per avverare la profezia del teologo Antioco Polla, che aveva predetto che sarebbero stati catturati come due agnellini, e così accadde. La notte del 27 agosto, nella località dei salti di Aritzo chiamata Gardesi, quelli che erano stati il terrore della provincia di Cagliari, vengono catturati senza colpo ferire, mentre separatamente cercano di uscire dall’accerchiamento. Va al merito di chi coordinò le operazioni di aver evitato un Morgoliai bis.
La messa è finita
Il giorno dopo i due latitanti vengono condotti ad Aritzo e fatti sfilare fra due ali di folla, a dorso di cavallo e coi ceppi ai polsi, come due tristi eroi. La notizia della cattura si sparge per via telegrafica in tutta l’isola. Caricati sul treno delle secondarie alla stazione di Belvì, partono sotto nutrita scorta alla volta di Cagliari e in ogni stazione toccata dalla linea trovano d attenderli una folla di curiosi bramosa di vedere di persona quegli uomini preceduti da grande e sinistra fama. All’arrivo in città, tanta è la folla accalcata sui binari che quasi si rischia la tragedia, manco i reali venuti in aprile avevano avuto una simile accoglienza. Tuttavia molti rimangono delusi. Chi si aspettava eroici individui, slanciati, robusti e fieri, si trova di fronte a due uomini precocemente invecchiati, con gli occhi stralunati, il volto contratto, vestiti di abiti sudici e di una statura talmente ridotta che attraverso il finestrino si riesce a malapena a vederne la testa. Torracorte e Liberau sorpresi da tale accoglienza, si alzano, sorridono e fra stupore e imbarazzo, ringraziano timidamente.
In seguito a due distinti processi celebrati alla Corte d’Assise di Cagliari – uno per l’associazione in banda armata e i reati derivati da essa, e uno per gli omicidi – il 17 novembre del primo anno del nuovo secolo vengono condannati all’ergastolo. Michele Salvatore Moro morirà in carcere a Torino nel 1922, mentre il suo inseparabile Liberau pare lo abbia preceduto di qualche anno. La loro vicenda ispirerà le poesie di Pirisi Pirino Filippo e Sebastiano Satta, versi che ebbero larga fama e indubbiamente servirono a perpetuarne l’aura leggendaria e il ricordo popolare anche dopo la loro scomparsa. Rimase celebre uno slogan politico degli anni Venti : “Elettori, votate i comunisti e i socialisti , votate i liberali e i democratici , votate Torracorte e Gasparone, ma non votate Ferruccio Sorcinelli”!
Dietro al popolarità e il mito però, si nasconde una storia che scrostata per bene dal suo manto romantico ed eroico, si rivela per quella che effettivamente è stata, in tutto il suo dramma e in tutta la sua violenza, con buona pace di chi, ancora oggi, vuol far passare i “bravi” di Don Rodrigo per dei Robin Hood, attribuendo loro caratteristiche sociali e patenti di ribellione che non hanno mai avuto. Si diventava banditi per necessità ed era una strada senza ritorno dalla quale si poteva uscire soltanto in due modi, pagando col carcere o con la vita.