Chi quel giorno di luglio del 1945 si fosse trovato a passare a Cagliari nella località Su Siccu avrebbe potuto notare un uomo, vestito di tutto punto nonostante il caldo, che, spostandosi da una roccia all’altra, si avvicinava alla riva e riempiva con l’acqua di mare bottigliette di vetro che poi conservava accuratamente in una valigetta. Quell’uomo era Giuseppe Brotzu, professore ordinario di Igiene della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Cagliari. Per capire perché il professor Brotzu si fosse recato di primo mattino nella zona del porto in cui si trovava lo sbocco delle fognature cittadine occorre fare un passo indietro.
La ricerca scientifica in una città distrutta
Tra il giugno del 1942 e il maggio del 1943 Cagliari aveva subito pesanti bombardamenti che avevano causato almeno mille vittime tra i civili e danneggiato pesantemente il patrimonio edilizio urbano. Molti abitanti erano sfollati e anche l’Università era pressoché deserta. Alla fine del 1943 Brotzu, che non aveva voluto abbandonare né la città né l’Università di cui era Rettore, si era ritrovato solo e bisognoso di aiuto; pensò quindi al dottor Antonio Spanedda, che in quel periodo si trovava a San Nicolò Gerrei in qualità di ufficiale medico. Spanedda era già stato collaboratore di Brotzu per sei anni fino al 1940 quando, avendo rinunciato alla dispensa, venne richiamato alle armi e prestò la propria opera quale Maggiore medico a bordo delle navi ospedale Virgilio e Città di Trapani e successivamente nell’Ospedale della Marina di Cagliari, poi trasferito a seguito dei bombardamenti a San Nicolò Gerrei. Brotzu ricopriva allora anche il ruolo di Sovrintendente sanitario della Sardegna e non ebbe difficoltà a far congedare Spanedda che poté così vestire di nuovo abiti borghesi.
All’inizio del 1944 nel Palazzo degli Istituti Biologici l’attività di ricerca proseguiva soltanto nell’Istituto di Igiene dove Brotzu e Spanedda dovevano affrontare mille difficoltà, come l’assenza di energia elettrica necessaria per far funzionare l’autoclave ed il termostato, apparecchi entrambi indispensabili per l’attività in laboratorio. Grazie ad una combinazione fortunata ottennero una certa quantità di alcol metilico che poteva essere bruciato per ottenere l’energia per l’autoclave; fu invece impiegato gas in bombole per far funzionare un termostato a gas. Tralasciando i problemi legati alla scarsità o indisponibilità di alimenti, o almeno di alcuni, restava quello della mancanza della carne, indispensabile non per l’alimentazione dei due ricercatori, ma per preparare il brodo di coltura necessario per gli esperimenti di laboratorio; per ottenerlo ricorsero alle placente provenienti dalla Clinica Ostetrica dove i bambini anche in tempo di guerra continuavano a nascere.
Quei bagni nelle acque putride del porto
In tutti quei mesi Brotzu e Spanedda, che praticamente vivevano in Istituto, continuavano a condurre le loro ricerche e naturalmente parlavano tra loro. E fu proprio durante queste chiacchierate che Spanedda raccontò al “Principale” (così veniva chiamato in Istituto il professor Brotzu) che quando era ragazzo ogni anno lui e alcuni amici il 19 marzo, festa di San Giuseppe, cominciavano i bagni con un tuffo nelle acque del porto; e anche moltissimi altri giovani si bagnavano nelle acque luride di Su Siccu. Non solo, spesso Spanedda e gli amici consumavano crude le cozze raccolte in quelle acque, eppure lui non aveva mai avuto un’infezione intestinale o qualche grave malattia infettiva. Nonostante questa non sana abitudine non c’erano a Cagliari epidemie di tifo; apparentemente un mistero. Ma secondo Brotzu, fervente cattolico, “i misteri appartengono alla fede”; doveva quindi esserci nelle acque di Su Siccu qualcosa che impediva ai microrganismi che sicuramente arrivavano con gli scarichi fognari di crescere e causare malattie.
Ecco perché in quei giorni di luglio del 1945, quando Cagliari ed i suoi abitanti tentavano, dopo la fine della guerra, di riprendere i ritmi di una vita normale, molto presto Brotzu si recava a Su Siccu per raccogliere i campioni dell’acqua in cui cercare quel “qualcosa”. Su quei campioni cominciarono quindi le prove in laboratorio per verificare l’azione inibitrice di quell’acqua nei confronti di differenti microrganismi. Era il 20 Luglio quando Spanedda chiamò il professore: “Principale, Principale, forse ci siamo”. Quello che i due ricercatori poterono osservare era lo sviluppo di una muffa, una “colonia color ocra con tonalità rosa che inibiva diversi microrganismi tra cui Salmonella tiphy”.
Come scrisse Brotzu in un articolo pubblicato tre anni dopo, “Si trattava quindi di un micete appartenente agli sporofori e tra questi al genere cephalosporium. La specie isolata da noi è probabilmente quella tipo, ossia l’acremonium”. L’identificazione era stata fatta con l’aiuto di Spanedda.
Naturalmente le ricerche proseguirono per estrarre dalle colture il principio antibiotico, purificarlo, concentrarlo e verificarne l’assenza di tossicità. Tutto questo nelle difficili condizioni del dopoguerra e senza mezzi, anche economici, adeguati. Furono inoltrate richieste al Ministero della Pubblica Istruzione e al Consiglio Nazionale delle Ricerche, ma senza ottenere alcuna risposta. Dopo mesi passati lavorando anche sedici ore al giorno, dalla mattina presto a notte fonda, per purificare quella muffa, nei primi mesi del 1946 Brotzu e Spanedda erano riusciti a produrre una quantità di quella che fu inizialmente chiamata la “Micetina Brotzu” sufficiente per una sperimentazione clinica. In assenza di una legislazione specifica in materia, e non volendo mettere in pericolo la vita di altre persone, Brotzu e Spanedda decisero di testarla su sé stessi, iniettandosene, ma non contemporaneamente, dosi crescenti in via intracutanea. Fu poi la volta delle iniezioni sottocutanee, con le medesime modalità. In nessun caso si verificarono reazioni locali o generali. La sperimentazione quindi proseguì (ad uso esterno) su pazienti ricoverati nella Clinica Chirurgica che presentavano processi infiammatori localizzati. I buoni risultati ottenuti portarono, all’inizio del 1947, alla sperimentazione ad uso generale con esiti incoraggianti.
Una scoperta ignorata in Italia
Nonostante l’importante scoperta, come già ricordato, nessun contributo finanziario venne stanziato dallo Stato Italiano, cosa che avrebbe consentito la prosecuzione delle ricerche per individuare la struttura chimica del principio antibiotico ed affinare il metodo di produzione. Per questo motivo Brotzu e Spanedda decisero di rivolgersi a due britannici di grande esperienza, Howard Florey ed Edward Panley Abraham, che anni prima avevano collaborato alla produzione della Penicillina. Dalla Micetina Brotzu vennero isolate tre sostanze ad attività antibatterica, poi denominate Cefalosporina C, N e P. Abraham isolò e purificò la Cefalosporina C, ne modificò la struttura aumentandone ulteriormente lo spettro d’azione e la brevettò a suo esclusivo nome, vendendo poi il brevetto alle case farmaceutiche Glaxo e Eli Lilly. Quest’ultima nel 1964 mise in commercio il primo antibiotico ad uso commerciale della classe delle cefalosporine, il Cefalotin. Abraham aveva fatto quello che Brotzu e Spanedda non vollero fare e non avrebbero, per intima convinzione, mai fatto. Infatti, quando i rappresentanti di un’azienda farmaceutica si recarono a Cagliari con l’intenzione di comprare i diritti su ciò che non era coperto dal brevetto già registrato, Brotzu e Spanedda risposero che “l’esclusiva è di Dio e l’uomo è solo uno strumento della Provvidenza”.
Anche per questo la paternità scientifica delle cefalosporine non venne per lunghi anni riconosciuta ai legittimi titolari. Soltanto nel 1971 a Giuseppe Brotzu venne finalmente attribuito il merito per l’importante scoperta, merito suggellato dal conferimento della Laurea ad Honorem in Scienza da parte dell’Università di Oxford e dall’onorificenza del British Council. Anche la Glaxo, in segno di riconoscimento (e di riconoscenza, si potrebbe aggiungere considerando i guadagni che l’industria britannica aveva ottenuto dalla commercializzazione delle cefalosporine) gli consegnò una targa ed una somma in denaro. Attualmente, esistono ben cinque generazioni di cefalosporine che presentano differenti spettri di azione e sono tutt’ora impiegate con successo nelle terapie antibiotiche.
(la foto di anteprima è di Dietrich Steinmetz)
Ottimo