Oh my God! Da quando è stato vietato l’uso dell’inglese a Milano nessuno sa dirti che lavoro faccia. È una delle tante, tantissime battute che si leggono sui social dopo che la proposta di vietare l’uso di termini stranieri, avanzata dal deputato di Fratelli d’Italia e vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, è diventata notizia. Si scherza, tanto, ma la questione è dannatamente seria.
Come ha dichiarato il firmatario della proposta, negli ultimi vent’anni le parole inglesi confluite nella lingua italiana scritta sono aumentate del 773% (sì, senza virgola: settecentosettantatre per cento). Nel dizionario Treccani sono circa 9 mila gli anglicismi a fronte di 800 mila parole in lingua italiana. Rampelli reputa “non più ammissibile che si utilizzino termini stranieri la cui corrispondenza italiana esiste ed è pienamente esaustiva”. E si potrebbe anche essere d’accordo con lui negli intenti, il problema sta nelle soluzioni.
Lingua italiana obbligatoria per fruire di beni e servizi e per trasmettere qualsiasi comunicazione pubblica; obbligo di utilizzare interpreti per ogni manifestazione o conferenza in lingua straniera che si tiene nel Paese; divieto di utilizzare sigle o denominazioni per ruoli in azienda (oltre che a Milano, panico anche su LinkedIN) e poi, dulcis in fundo – questa forse passerebbe, è pseudo latino italianizzato – all’università e a scuola corsi solo in italiano e lingua straniera ammessa solo se in aula sono presenti studenti stranieri e nei corsi di lingua estera, ovviamente (ma non troppo). In caso di violazione, sanzione amministrativa da 5 mila a 100 mila euro.
L’impostazione della proposta di Rampelli ribadisce e rafforza e ricorda a tutti la matrice culturale della destra italiana: vietare per legge e punire severamente. Peccato, però, che l’applicazione di queste norme è impossibile e pretendere il loro rispetto, velleitario, ça va sans dire.
È bastato poco perché anche lo stesso Rampelli lo capisse. Il karma – pardon – la nemesi si è manifestata appena la proposta di legge è diventata notizia, cioè pochi giorni fa (il deputato la presentò, infatti, a fine dicembre ma era passata sotto silenzio), quando il suo stesso partito ha proposto un ministero del Made in Italy e a stretto giro, la stessa Giorgia Meloni un liceo, sempre del Made in Italy.
Una notizia fornita involontariamente su un piatto d’argento a produttori di meme e oppositori di FdI che infatti hanno colto l’assist (ops!) per produrre grafiche, card e battute a buon mercato.
Boutade a parte, che l’italiano rispetto ad altre lingue europee sia contaminato da anglicismi – soprattutto – e più in generale da forestierismi è una verità assodata (chi parla francese o spagnolo lo sa benissimo) e molto fastidiosa, soprattutto perché l’utilizzo di parole straniere al posto di quelle italiane a livello popolare è diventato sinonimo di competenza, anche se spesso fuorviante e truffaldina.
In determinati ambienti, specie professionali, è tutto un profluvio di uplodato, skillato, briffato, skippato, flaggato. Anche una bella parola, rotonda e comprensibile a tutti, come automobilistico è diventata inglese: automotive, però solo quando si parla di commercio. E poi è d’obbligo essere specialist o manager di qualcosa, altrimenti non si è nessuno.
A riguardo, Open ricorda l’episodio che vede protagonista Tiziano Treu, attuale presidente uscente del CNEL, che molti anni fa, in una riunione di lavoro interruppe il suo interlocutore per dirgli: “facciamo una cosa, decida se parlare in italiano oppure in inglese, e lo faccia bene, perché al momento sta sbagliando entrambe le lingue”.
Agli italiani piacciono così tanto i forestierismi che si è arrivati al paradosso di inventare locuzioni inglesi di sana pianta che però, udite udite, in Inghilterra non esistono. Un esempio famoso? Smart working (che gli inglesi più pragmaticamente chiamano remote working, lavoro da remoto). Da citare perché probabilmente è la prima locuzione in lingua straniera, anche se inventata, a essere italianizzata ante litteram da fonte governativa: per la PA il lavoro da casa è infatti lavoro agile.
Quindi il povero Rampelli ha ragione? Probabilmente sì negli intenti, difficilmente nelle soluzioni proposte. A dirlo è nientepopodimeno che l’istituzione che tutela la lingua italia, l’Accademia della Crusca. “Questa illusione di fare leggi contro l’invasione di parole straniere fa sorridere, perlomeno noi linguisti. Le leggi contro l’uso di parole straniere hanno fatto il loro tempo e non hanno mai sortito nessun effetto. La battaglia contro le singole parole straniere è ridicola e di per sé vacua. Istruiamo piuttosto le persone, favoriamo gli studi, miglioriamo la scuola, innalziamo le masse”, spiega Francesco Sabatini, linguista, filologo e presidente onorario dell’Accademia, ai microfoni della trasmissione Base Luna chiama Terra (Radio Cusano Campus). “La difesa della purezza della lingua italiana è ridicola nel momento in cui si sa che l’italiano è strapieno di germanismi, francesismi, anglicismi, ispanismi, arabismi da secoli e secoli. E dipende dai contatti con gli altri popoli”.
Lo sapeva bene Michelangelo Pira, uno dei più grandi antropologi e intellettuali sardi del secondo dopoguerra. A proposito di lingua sarda notava che la variante di Cagliari regge meglio l’urto di lingue straniere (italiano compreso) rispetto alle varianti più conservative come quella della sua Bitti, perché quella di Cagliari è una lingua flessibile, duttile, che accoglie il lessico esotico e lo sardizza. Così nel capoluogo sardo lo chauffeur dei primi del Novecento è diventato sciaferru, e polizia militare, pòlima e, per estensione, dopo la guerra, la polizia in generale.
Forse bisognerebbe farlo notare a Rampelli, che vorrebbe una lingua “tutta d’un pezzo” in tutte le parti d’Italia. Esattamente come la voleva Mussolini, che impose parole italiane al posto di quelle straniere entrate oramai nell’uso comune, con risultati grotteschi ed esilaranti, come ‘bevanda arlecchino’ al posto di cocktail, e altri esiti ben più tragici e violenti, come l’italianizzazione forzata delle minoranze linguistiche.
In questo caso, a maggior ragione, è bene ricordare cosa diceva Karl, anzi, Carlo Marx: “Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”.