Da secoli a Meana si tramanda una leggenda. Una storia mitologica che racconta di Maria Incantada, una jana, una fata che tesseva con un telaio dorato e cantava la pena per il suo amato tenuto prigioniero in quello che è conosciuto come il nuraghe Noltza, mitico guerriero dell’antichità. Un tempo gli anziani raccontavano che all’imbrunire, se si osservava il giusto silenzio e si prestava la dovuta attenzione, si poteva ancora sentire l’eco di “is cascias” del suo telaio che sbattevano forte, quasi e dare il ritmo alle melodie che intonava. Quel mito si è conservato nella realtà e ha preso le sembianze delle donne del paese che per secoli coi telai in legno hanno confezionato manufatti di pregevole fattura.
Poi arrivarono i telai meccanici e sembra quasi di vederle quelle ragazze, in un fermo immagine in bianco e nero o nei colori sbiaditi degli anni Settanta. Venti, venticinque, giovani intente a rifinire e a curare ogni singola cucitura della maglia di “Long John” Chinaglia o ad applicare il glorioso stemma del Toro su quella di Paolino Pulici. Chissà se poi lo sapevano le ragazze di Meana Sardo, paese barbaricino appena fuori dalla schiera dei monti del Gennargentu, chi erano Chinaglia, Pulici, Graziani, D’Amico, Zaccarelli, Re Cecconi, Sala, Pecci o Garlaschelli. Probabilmente no.
Poi c’erano altre maglie. Bianche, con i bordi delle maniche e quelli del colletto rossoblu, con la scollatura a V stringata e le teste bendate di quattro mori rivolti verso sinistra sullo stemma che applicavano con particolare dedizione, perché i nomi dei destinatari di quelle divise sportive, i calciatori del Cagliari, erano abbastanza noti, ma solo uno volava di bocca in bocca con la velocità del vento.
Sembra quasi di vederle a fare a gara per cucire quel numero 11 sulla maglia di Luigi Riva. 11 come il numero atomico del sodio che quel giovane lombardo, del quale i sardi cominciavano a custodire gelosamente le immaginette, in quel periodo, a contatto col mare del Golfo degli Angeli, esplodeva cannonate a profusione, portando al delirio gli spettatori dello stadio Amsicora e migliaia di radio ascoltatori collegati da mezza Europa che pendevano dalle labbra di Alfredo Provenzali, Enrico Ameri e Sandro Ciotti.
Sembra di vederle sotto lo sguardo attento di Don Delio Cabiddu da Nurallao, parroco di Meana dal 1960, che sul finire del decennio, con il contributo della comunità e dei suoi figli sparsi per il mondo, aveva tirato su un cine- teatro da trecento posti che, anni addietro, avrebbe ospitato i grandi nomi della prosa italiana. Sopra, nei locali alti dello stesso stabile, avrebbe invece creato la maglieria e a quelle ragazze, anche grazie a una felice intuizione, avrebbe dato un lavoro.
Un uomo caparbio Don Delio Cabiddu, attento osservatore di quel Cagliari che volava sulle ali dell’entusiasmo generando in Sardegna un fenomeno sportivo e sociale senza precedenti, che aveva protestato vivacemente con la società di Efisio Corrias, che fino ad allora aveva acquistato le maglie di lanetta dalla ditta genovese Isolabella & Co. Fu lui a convincere il presidente rosso-blu che con le commesse delle maglie si sarebbero potuti creare diversi posti di lavoro nell’isola – come racconta anche Luca Telese in ‘Cuori Rossoblù, saggio sullo “scudetto impossibile” edito da Solferino – con un prodotto di uguale fattura e minori costi di spedizione che avrebbe valorizzato il territorio, strappandogli così gli ordini che avrebbero presto aperto nuove prospettive lavorative per la giovane impresa parrocchiale.
Sembra di vederle quelle ragazze, protagoniste nel loro piccolo, di un’epopea moderna che oltre al suo eroe senza macchia, aveva fra le sua fila altri cinque nazionali che sarebbero partiti per il mondiale di Messico 70, giocando quella che è passata alla storia come La Partita del Secolo, vincendo con la Germania Ovest del “Kaiser” Beckenbauer per 4 a 3, prima di cedere in finale davanti al blasonato Brasile di Pelé. Oltre a quello di Gigi Riva ora conoscevano anche i nomi di Albertosi, Nenè, Martiradonna, Gori, Domenghini, Niccolai, Cera, Tomasini, Mancin, Zignoli, Poli, Brugnera e Greatti, appresi leggendo il giornale o magari cantando la canzone di Serafino Murru che all’epoca spopolava e avevano imparato a memoria.
Sembra di vederle, dicevamo, mentre, oltre allo stemma dei quattro mori, applicano sulle maglie da loro confezionate lo scudetto tricolore. Maglie pronte a fare il giro d’Italia e d’Europa per vivere un altro grande sogno che però s’infrangerà in autunno sotto la scarpa bullonata di un mediano austriaco sul campo del Prater di Vienna. La fortuna che smise di arridere a Gigi Riva e al Cagliari la trasferirono fra i fili granata e celesti delle maglie del Torino e della Lazio, che con i loro scudetti spezzarono lo strapotere juventino di metà anni Settanta, e in quelle del G.S. Meana che qualche anno dopo, indossando i colori giallo verdi ispirati dal grande Brasile, avrebbe scritto pagine importanti della storia calcistica comunitaria.
La maglieria chiuderà i battenti nei primi anni Novanta, ma se ascoltate bene, potete ancora sentirle quelle ragazze, moderne Marias Incantadas, che confezionano le maglie per i ragazzi del filosofo Manlio Scopigno e contemporaneamente ne cantano le gesta con i versi di Serafino Murru e di quel “Riva il cannoniere che quando tira il rigore fa tremare il portiere”.
Un canto di gioia che oggi si è trasformato nel più triste de is attitus, l’antico canto funebre delle prefiche sarde, che oltre al dolore per la perdita esaltava le gesta in vita del defunto. Ecco, per Luigi Riva da Leggiuno forse servirebbe un attitu lungo un’eternità, ma non siamo sicuri che basterebbe per raccontarne l’esistenza e lo sconfinato amore che ha dato e ricevuto in questa terra dove non voleva proprio venire. Fa buon viaggio Rombo di Tuono e porta con te quella maglia in lanetta bianca e i bordi rosso-blu che le giovani tessitrici di Meana ti confezionarono con smisurato affetto e con quella devozione e quel rispetto che in Sardegna si riserva soltanto ai grandi.