Racconto lungo o romanzo breve, non importa. Pubblicato ad aprile del 2025 da Mondadori, “Penultime parole” di Cristò Chiapparino è un immaginifico distillato di pensiero e, come suggerisce il titolo, di parole. Un viaggio onirico e ragionato tra le circonvoluzioni del tempo e della memoria, nel quale non c’è spazio per il superfluo.
Proprio dall’idea di “spazio” vogliamo partire, inteso come concetto fisico e metaforico, come luogo in cui affondare le proprie radici e dimensione dalla quale immaginare e desiderare un altrove. È per avere più spazio da concedere al silenzio da cui sono unite e relegate nelle rispettive solitudini, che la voce narrante e sua sorella Teresa, ormai anziane, cominciano a sotterrare i libri di famiglia attorno alla loro piccola casa isolata sulla collina. Morti da tanti anni i genitori, morto il fratello Matteo, restano i ricordi e, in lontananza, le poche luci del villaggio di Sercinato al Fiume. Ma i ricordi si deteriorano, i nomi si dimenticano, i volti sbiadiscono e le ultime tracce di vita, altra e altrove, vanno lentamente spegnendosi. Eppure, “il nostro ricordo, benché inattendibile, è l’unico testimone superstite e quindi non esiste un’altra versione di ciò che è accaduto. Così non può che essere la realtà”.

Su quel terreno nutrito dalle parole germinerà un ecosistema nel quale lo spazio, il tempo e la memoria, l’esistere nella forma corporea della vita – animale e vegetale – o in quanto percezione di sé e della realtà, cessano di essere entità distinte per tramutarsi in un sentire universale che è contenitore e contenuto, immune al principio di consequenzialità, di causa ed effetto. Si esiste in un tempo che pare immobile, finché non gli si assegna un significato attraverso un gesto o ritrovando il proprio riflesso invecchiato su uno specchio. Il silenzio si innesta nel suono che esso stesso genera nel venir meno. La memoria, che prende forma con la parola e alla parola dà forma, preserva ciò che è stato, tramutandolo in un eterno presente in cui “avevamo rinunciato a conservare il passato, contare gli anni, separare il possibile dall’impossibile, l’accaduto dal sognato, il ricordo dal romanzo”.
Nell’efficace resa di questa mise en abyme, per la quale la protagonista – e con lei il lettore – si specchia nel tutto di cui è parte, l’opera di Cristò si fa da un lato esplicita metafora dell’indissolubile vincolo tra ogni individuo e l’ambiente che lo accoglie. Quello che l’autore chiama più volte “il territorio”, come a volerlo rendere tangibile sottraendolo alla dimensione onirica della storia. “Tutto vive e muore costantemente dentro di te e con te dentro”, per tale ragione, qualunque abuso o atto di prevaricazione è compiuto contro se stessi.
E, al contempo, il racconto diviene metanarrazione che colloca la parola, e quindi la letteratura, al centro dell’esperienza umana, riponendo in essa ogni ambizione o timore di immortalità. Gli stessi libri che le due sorelle hanno sotterrato, confidando nel silenzio e nell’oblio, in una fine pacificatrice, ora alimentano il substrato pullulante di vita che custodisce i volti e le voci, la memoria della loro e di ogni altra esistenza.