Scavare dentro di sé, guardare negli anfratti del proprio animo per conoscersi realmente, anche a costo di soffrire e sentirsi soli e non compresi. Chi scrive e, più generalmente, chi si dedica all’arte sa bene che questo si verifica nel momento in cui si ha il coraggio di andare oltre il semplice appagamento di un desiderio di riconoscimento del proprio talento, cercando davvero di elevarsi tramite l’uso della creatività. Costantino Nivola, uno dei nomi tutelari dell’arte sarda e non solo, lo ha fatto e non solamente con le sue sculture ma anche tramite la scrittura.
Una scrittura che i più hanno potuto visionare nella sua celebre opera postuma uscita nel 1996 ‘’Memorie di Orani’’ ma che è emersa nitidamente già tre anni prima a partire dalla raccolta ‘’Ho bussato alle porte di questa città meravigliosa’’, pubblicata da Arte Duchamp e contenente al suo interno 22 lettere inviate a Maria Lai, alla moglie Ruth Guggenheim e alla celebre curatrice d’arte e gallerista Angela Grilletti Migliavacca, a cui si aggiungono riflessioni sparse sulla vita con tutte le sue sfaccettature che Nivola riesce a cogliere grazie a quell’empatia profonda che lo ha sempre contraddistinto. Un’empatia frutto di una grande consapevolezza che, come rimarcato dal docente di italiano, scrittore e paroliere Mimmo Bua oschirese classe 1942 nell’introduzione dell’opera stampata nel maggio del 1993 a Cagliari dalla Litotipografia Paolo Pisano srl in tremila copie, è sempre andata ben oltre il rischio di chiudersi nelle angustie di un passatismo folcloristico.
La raccolta, pubblicata a cinque anni dalla morte di Nivola nel 1988 all’età di 76 anni, offre l’immagine di un uomo profondamente umano, delle sue insicurezze, del suo desiderio di scoprire nuovi lati di sé, andando decisamente al di là dello stereotipo dell’artista affermato senza più nulla da dimostrare, tranello a cui tanti artisti hanno ceduto. Tutto il contrario: in questa sorta di diario meditativo, dai tratti fortemente poetici, emerge la dolce disillusione di Nivola, il suo disincanto, talvolta anche la sua acrimonia davanti a certi atteggiamenti snob e spocchiosi del tutto ingiustificati. Emerge, chiaramente, anche il suo profondo amore per l’arte, per la Sardegna e per gli Stati Uniti che lo hanno accolto dal 1938 mai però con uno sguardo saccente ma, anzi, con un modo di approcciarsi alla vita delicato e contraddistinto da un disincanto che a tratti sembra quasi essere uno scudo per proteggersi dalla frenesia di una società che, già tra la fine degli anni Settanta e l’avvento degli anni Ottanta, mostrava lati di sé non piacevoli che, tristemente, sarebbero poi diventati una routine. La schiettezza è uno dei tratti caratterizzanti la scrittura di Nivola e risalta subito quando, nel catalogo della mostra personale Arte Duchamp del marzo 1980, scrive: “La mia perpetua condizione di naufrago mi permette di abbandonare i binari diritti, dove molti dei miei colleghi sono stati uccisi dalla noia. Mi piace inoltrarmi e perdermi nei sentieri ondulati dell’eclettismo, dove, tra i rifiuti di plastica, ritrovo qualche fiore e nelle pozzanghere inquinate i riflessi delle nuvole”.
Le sue riflessioni variano di tono e di argomento ma tutte offrono spunti di riflessione non da poco: Nivola parla del fatto che nulla accade per caso e tutto si verifica nel momento e nel luogo giusto, invita a brindare alle fallibilità e improbabilità oltre che a pagare omaggio alle irrealizzate potenzialità dei nostri talenti. In una lettera a Maria Lai ricorda il suo primo incontro a Nuoro con lo scrittore Salvatore Cambosu, per poi dire con un pizzico di amarezza: “mettiamoci il cuore in pace Maria. La Sardegna nella fase che sta attraversando non ha bisogno d’arte, almeno non della nostra arte, troppi appetiti da soddisfare, appetiti da terzo mondo, naturalmente, che richiedono priorità”. Poche pagine dopo, in una lettera ad Angela Grilletti Migliavacca, risalta il richiamo al mito di Ulisse, tramite il quale proietta il suo sguardo oltre quelle colonne d’Ercole a cui dà un’accezione positiva. Immancabile il riferimento all’America, che definisce la sua seconda patria, e alla Sardegna che afferma con orgoglio di amare entrambe come un amante scellerato.
Anche i resoconti di vita quotidiana offrono lo spunto per riflettere sulla bellezza, come traspare da una riflessione in cui, parlando di un semplice giro tra i parcheggi delle macchine, coglie un angolo della natura capace di confortare il suo animo da quelle che definisce le banalità urbanistiche della attualità. Elogia il Bastione Saint Remy definendolo un’apparizione inaspettata e felice, in un’altra lettera sempre rivolta a Maria Lai, risalente al 22 maggio del 1984, si definisce come un uomo “non fanatico per la vita” pur provando verso di essa sempre un grande senso di attrazione, mentre poche righe dopo tributa l’età dell’infanzia descrivendola come “l’unica che merita di essere vissuta, nella sua intensità di un attimo”. Sempre in una lettera a Maria Lai, del 15 settembre del 1984, ironizza sulla primavera e sull’estate definendole come stagioni non serie dove c’è troppa luce e troppa apparenza, apprezza l’inverno che ritiene la vera stagione seria, definisce Salvatore Cambosu come il Flaubert sardo, elogia il temperamento mite e il disinteresse verso la fama dello scultore dorgalese Salvatore Fancello, rende merito a Maria Lai affermando che il suo ruolo per la realizzazione di ‘’Miele amaro’’ di Cambosu sia stato essenziale, infine si rivolge direttamente al popolo sardo annotando che “noi Sardi siamo continuamente alla ricerca archeologica della nostra identità. Forse abbiamo paura di affrontare la reale identità nostra di oggi”.
La sua scrittura a tratti è estremamente concreta e aspra, altre volte si fa sfumata e leggiadra come quando parla di desideri che, come le onde, vanno e vengono oppure quando sottolinea la magia del gesto di incidere sull’argilla fresca. Elogia la natura, la vita seppur a volte incomprensibile, e persino la morte che rende l’esistenza degna di essere vissuta. Altro frangente di rilievo della raccolta è rappresentato dalla dedica a Maria Lai in cui elogia la follia e annota: “Siamo tutti un po’ matti. Senza un tocco di follia accompagnato da una curiosità intellettuale e poesia, la vita sarebbe una cosa triviale. Brindiamo alle nostre inadeguatezze, alla nostra capacità di sbagliare”.
In una lettera ad Angela Grilletti Migliavacca, del 25 maggio del 1983, si adira con due studentesse che volevano incentrare la propria tesi di laurea sulle sue opere definendo il loro approccio privo di curiosità intellettuale, poesia e un briciolo di follia. Nella parte finale Nivola parla anche di New York, dicendosi finalmente pronto per dipingerla non mosso da amore o da odio bensì da un desiderio oscuro di essere sincero nei confronti di quella che ribattezza come la città della solitudine. Solitudine, malinconia, gioia, curiosità, desiderio fervido di scoprire quanto più possibile: sono questi i sentimenti che emergono da questo centinaio di pagine intense e dense di significato. Sentimenti autentici su cui Costantino Nivola plana leggero come una rondine, lui stesso fa questo paragone, consapevole che – come scritto dal poeta torinese Carlo Betocchi – le rondini sono tempi in cui non vige una misura, capaci di non essere ingabbiate e soverchiate dal tempo. Proprio come Nivola e la sua arte, testamento prezioso di ciò che è stato e ancora oggi continua a essere.