La sera del 22 novembre 1916 da qualche parte in California, qualcuno, entrando in una festa esclamò: “Non ridete, Jack London è morto, e la festa per quel giorno si interruppe. La mattina del 5 aprile 1994 Dimitri entrò in classe e a mezza voce sussurrò al suo compagno: “è morto Kurt Cobain”. Il gelo ebbe il sopravento sul tepore di quella bella giornata primaverile e il buio più nero parve oscurare quel sole gentile. L’istantanea sensazione di chi ascoltava la musica con orecchie diverse, senza leggerezza e distacco, e la viveva intensamente, fu quella che si prova quando si capisce in un attimo che qualcosa è cambiata per sempre, finita, irrimediabilmente persa. Qualcosa di molto simile a quello che provarono i giovani lettori di Jack London in quella festa di molti anni prima.
A trent’anni di distanza Dimitri ricorda perfettamente quella giornata: “Non morì un cantante, moriva un modo di fare e di sentire la musica che nessuno ha mai più eguagliato”. Ma che motivo aveva Cobain per spararsi una fucilata in bocca? Se lo chiesero in molti all’epoca. E allora giù con fiumi di inchiostro carichi di bile e di moralismo benpensante di chi ferocemente danzava sul suo cadavere ancora caldo, ancora una volta pronto a sbattere in prima pagina il malessere del rock e il cattivo esempio per i giovani. Un cattivo esempio, si badi bene, lastricato d’oro, di gloria, di celebrità ma anche di droga, di violenza, del male di vivere e di tutto il marcio che da sempre è stato affibbiato a certi tipi di musica ,non solo al rock, ma anche al blues, alla techno o all’hip hop.
In mezzo a tutto questo clamore mediatico, forse, soltanto chi aveva ascoltato la musica dei Nirvana senza usare esclusivamente le orecchie non rimase sorpreso. Tuttavia quella mattina si trovò a fare i conti con un’inaspettata angoscia e un senso d’inquietudine che presto sarebbe finita sulle pagine più tristi delle Smemoranda, sui muri, e sui pali della luce. Lo sapevano quei ragazzi che prima o poi sarebbe accaduto, ma in cuor loro speravano che quel momento tragico non dovesse arrivare mai. La verità è che non erano pronti. Avevano letto, da qualche parte, delle fini drammatiche delle vite di Sid Vicious e Ian Curtis, ma erano storie che appartenevano ad un’altra generazione, consegnate oramai alla leggenda dell’epopea punk, che pur suggestionandoli, vivevano come una fatto di pertinenza altrui.
Invece con Kurt Cobain se ne andava uno di loro, un ragazzo malinconico, sofferente, ma vero, che aveva sconvolto le loro esistenze con canzoni mai sentite prima, che nei riff della sua chitarra e nelle sue liriche metteva, per dirla con Faber, un “marchio speciale di speciale disperazione”, che dal guscio dell’underground si liberava per la prima volta per invadere le case dei loro coetanei di tutto il mondo. Per quei ragazzi non se ne andava il drogato, l’eroinomane, il folle, il depresso – tutti epiteti cari alla stampa dell’epoca – l’uomo di successo e del nuovo corso del mercato musicale, il cantante per puerili brufolosi dai facili tormenti adolescenziali. Per quei ragazzi se ne andava un “amico fragile”, che scelse di bruciare in fretta anziché spegnersi lentamente, così, come aveva cantato Neil Young in ‘Hey Hey, My My’ nella sua accorata dedica a Elvis del 1979.
La morte si presentò al suo cospetto “imbratta di fango e fradicia di candeggina, come un vecchio nemico”, quasi a ricordare beffardamente i versi di ‘Come As You Are‘, una delle più celebri canzoni dei Nirvana, dove Kurt aveva spergiurato a più riprese di non possedere un fucile. Mesto presagio a quello sparo che mise fine alla sua sofferenza consegnandolo alla leggenda dove, per una volta, la musica prevarrà sul mito, sull’icona, come dice bene Dimitri: “I Nirvana hanno tracciato un solco indelebile sul modo di approcciarsi alla musica della nostra generazione. Tutti i dischi suonano in un modo pazzesco, sempre col cuore a mille e quando finisce, non ti basta, lo devi girare una seconda volta”. Questo è il vero testamento di Kurt Cobain, le sue canzoni saranno sempre sconfinatamente più importanti di tutto il chiacchiericcio mediatico sulla sua persona, quello che alla fine era un ragazzo appassionato e sensibile che per alcuni ha avuto il grande torto di non riuscire a superare la sua fragilità, ma per tanti altri è stato un fedele alleato che dai solchi di quei dischi accompagna ancora il loro viaggio da adulti.
Quei ragazzi di allora, ormai cresciuti, probabilmente ancora oggi pensano alla razionalità della vita come fa Malemute Kid, il personaggio di ‘Un’odissea del Nord’ di Jack London: “Ci sono cose più grandi della nostra saggezza, che vanno oltre la nostra giustizia. Di tutto ciò non possiamo dire quale sia il bene e quale il male, e non sta a noi giudicare”.
Quel 5 marzo 1994 la grande consolatrice si prese il corpo di Kurt Cobain, ma dovette cedere il passo alla maestosità della sua musica, quella che aveva cambiato per sempre la vita di milioni di giovani e così accade anni più tardi, quando con le stesse modalità si portò via Chris Cornell, Michael Hutchence, Chester Bennington e Keith Flint. Ma non aveva fatto i conti con la forza di quella rivoluzione sonora nata per essere immortale: “Hey hey, my my. Rock and roll can never die”.