Sabir è una lingua millenaria. Una lingua franca comune impiegata da chi anticamente si incontrava nei porti del Mediterraneo per commerciare. Ma Sabir è anche la nuova creazione del coreografo sardo-africano Mvula Sungani, nato a Roma cinquantuno anni fa da padre del Malawi e da madre nuorese, ben conosciuto al pubblico della nostra Isola dove negli anni sono approdati i suoi lavori. Questo, in particolare, aprirà con sei repliche la stagione danza del Cedac: il 9 gennaio la Mvula Sungani Psysical Dance sarà di scena a Sassari al Teatro Comunale, il 10 a Tempio Pausania, Teatro del Carmine, l’11 a San Gavino, Teatro Comunale, il 12 a Carbonia, Teatro Centrale, il 13 a Cagliari, Teatro Massimo. Gli spettacoli inizieranno alle 21, a eccezione di quello in programma nel capoluogo, che invece salperà alle 20.30. “Il tema principale è quello dell’integrazione attraverso l’uso di una lingua comune. Il sabir era una lingua molto semplice, che ho voluto utilizzare come metafora di un’integrazione sana e ponderata, portatrice di ricchezza di principi e valori. Del resto, anche io mi ritengo frutto di una integrazione sana. Da piccolo sono cresciuto in Africa e poi sono rientrato in Italia”, afferma Sungani che abbiamo raggiunto per un’intervista.
Quanto c’è di autobiografico in questo lavoro?
Ci sono diversi spunti, come la storia dei miei genitori e la mia principale attitudine a contaminare. Cosa che accade anche a livello musicale, dove ho chiesto a un bravissimo compositore e polistrumentista che si chiama Erasmo Petrigna di miscelare sapientemente i suoni del Mediterraneo attraverso strumenti diversi.
Nel 2023 in Italia sono arrivati 155 mila profughi, tra cui 17 mila minori non accompagnati.
Il fenomeno della migrazione è ormai globale e penso che nessuno abbia la bacchetta magica per risolvere una condizione che fa parte della storia dell’uomo. A preoccuparmi molto sono comunque i minori non accompagnati, che spesso scompaiono e di cui non si sa più niente. Il mio spettacolo parla di collaborazione e di dialogo. I popoli che si incontrano in un luogo e uno aiuta l’altro. La cooperazione tra Paesi è l’unica soluzione.
A novembre la premier Meloni ha siglato un’intesa con l’Albania per ospitare circa 36 mila migranti l’anno: che ne pensa?
Nonostante le tante critiche piovute addosso, potrebbe essere una soluzione che potrebbe portare a sviluppi inattesi. Conosco bene l’Albania, anche perché da anni ho rapporti personali con l’Accademia nazionale di danza. E’ un Paese in via di sviluppo e i migranti potrebbero dare una mano in questo senso, integrandosi a loro volta.
Come ha tradotto in chiave coreografica le idee di questo spettacolo?
La mia cifra stilistica è sempre quella della contaminazione tra stili differenti. Insieme a Emanuela Bianchini, étoile internazionale che mi ha aiutato nel lavoro coreografico, ho puntato sulle suggestioni e lavorato sul corpo. All’interno della struttura drammaturgica e coreografica, abbiamo molte sulle suggestioni che ci riportano all’idea del viaggio. La narrazione è astratta ma molto evocativa.
Cosa ricerca in un danzatore?
La personalità. Poi una grande fisicità, unita all’aspetto artistico. I miei danzatori provano otto ore al giorno e quando non provano studiano. Hanno inoltre una solida tecnica.
Che ruolo ha la danza in questo difficile momento?
Che sia codificata o meno, la danza è resiliente. Procedere in gruppo è oggi più importante che mai. La comunità ha ancora una grande forza.
Quanti ricordi la legano alla Sardegna?
Tanti. Da piccolo venivo quattro mesi all’anno. Ho sempre avuto una predisposizione per la danza e da bambino ballavo nei gruppi folk. Nel mio modo di coreografare c’è molto degli aspetti ritmici e sincopati della danza tradizionale sarda.